Gli eventi giocavano a favore di Ferdinando ed il re, forte dell’appoggio popolare, nominò vicario generale del regno il ben più virile cardinale Ruffo con l’incarico di restituirgli il trono. Il cardinale “con pochi uomini costituenti l’armata cristianissima” obbedì riportando i Borboni a Napoli.
Il cardinale Ruffo, da uomo di chiesa si dimostrò un abile politico divenendo uno spregiudicato coordinatore delle varie forze insurrezionali.
Secondo Pietro Colletta “Fabrizio Ruffo, nato di nobile ma tristo seme, scaltro per natura, Ignorante di scienze o lettere, scostumato in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese nei suoi verdi anni il facile e ricco cammino delle prelature. Piacque al Pontefice Pio VI, dal quale ebbe l’impegno supremo nella Camera pontificia; ma per troppi e subiti guadagni perduto uffici e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando in Roma potenti amici acquistati, come in città corrotta con doni e blandimenti della fortuna. Dimandò al re di Napoli ed ottenne la intendenza della casa reale di Caserta; indi, tornato nelle grazie di Pio, il cardinale, andò a Roma e lì restò sino al 1798, quando, per le rivoluzioni di Roma, prese in Napoli ricovero, e, poco appresso a Palermo seguendo il re.”
La sua figura è opposta a quella stereotipata divulgata in seguito che lo dipinge come fosca figura di intrigante assetato di sangue. Non retrivo, certamente un fanatico della religione, cercava di attuare con i limitati mezzi a disposizione, quella che potremmo definire la pace sociale del regno. Facendo garrire al vento la sua bandiera sulla quale da un lato era stampata la croce e sull’altro il giglio borbonico avanzava irresistibilmente dalla Calabria e le città che via via incontrava, da repubblicane ridiventavano borboniche. Il Cardinale seppe essere magnanimo quando non volle infierire sui vinti, ma ogni tanto lasciò libero il “suo esercito” di saccheggiare qualche città, depredare, violentare donne e perfino bambine. Ben presto i sanfedisti arrivarono a Resina, l’odierna Ercolano e a Portici e da lì a Napoli. La città fu difesa eroicamente dal generale repubblicano Wirtz, mentre a sostenere l’assalto della flotta anglo-borbonica c’era l’ammiraglio Caracciolo (giugno 1799).
Francesco Caracciolo, arruolatosi giovanissimo nella marina di guerra napoletana, aveva partecipato a fianco degli inglesi alle guerre nelle colonie americane, poi aveva combattuto contro i pirati di Algeri e di Tunisi. facendosi fama di eroe. Valoroso ed esperto uomo di mare raggiunse rapidamente il grado di ammiraglio.
Deciso oppositore delle forze conservatrici di corte, era ancora più contrario agli inglesi di cui aveva sempre diffidato. Quando lo Championnet si apprestò a Napoli, scortò il re con una divisione navale fino alla Sicilia, ma giunto a Messina fu costretto a disarmare suo vascello e poco dopo messo in disparte. Vistosi inutile, chiese licenza a Ferdinando di tornare a Napoli per curare l’amministrazione del suo patrimonio, riunendo nella capitale poche settimane dopo che era stata proclamata la repubblica. Pregato da tutta l’aristocrazia colta e liberale dell’ex reame, memore della pochezza dei governanti in esilio, per il bene di Napoli, accettò il comando della flotta repubblicana. Intendiamoci bene, tutta la flotta consisteva in qualche cannoniera scassata e perciò abbandonata durante la fuga di Ferdinando IV, qualcosa requisita dai francesi, qualche paranza e naviglio di ultima serie.
La repubblica si difese come potè, ma poi dovette capitolare alle soverchianti forze anglo-borbonche e quando i sanfedidisti entrarono a Napoli si ebbero a verificare incredibili scene di violenza. Mai si uccide con maggiore voluttà quando si tratta di fratelli.
Il cardinale Ruffo, forte della giusta convinzione che non si dovessero aprire fratture insanabili nel regno offrì una resa onorevole agli esponenti della Repubblica partenopea ed il trattato firmato il 20 giugno 1799 e oltre che dal cardinale, in rappresentanza del re, fu sottoscritto anche dai suoi alleati inglesi, russi e turchi. Secondo il trattato i ribelli sarebbero stati trasportati a Tolone avendo salva la vita. Nelson arrivato a Napoli di gran carriera dichiarò nulla i patti sottoscritti. Il Ruffo, non avendo nuovi ordini dal re, li mandò a chiedere facendo continuare ad imbarcare i repubblicani, sicché Nelson non fece altro che prendere quei disgraziati che fiduciosi della parola data si erano imbarcati sulle navi e consegnarli al carnefice, incurante dell’esecrazione dell’Europa e delle proteste delle altre potenze firmatarie del trattato. Questa decisione ebbe l’immediato plauso della regina che una volta avrebbe esclamato: “Voglio perdere tutt’e due i regni, anziché firmare una grazia”. Ferdinando succube della moglie, assistette impassibile alle esecuzioni e raramente fece uso della “clemenza sovrana” per risparmiare qualche disgraziato dal capestro.
La vittima più illustre fu Francesco Caracciolo, impiccato all’albero di trinchetto della nave Minerva il 29.6.1799, nonostante che la corte giudicante ne avesse proposto l’ergastolo. Il Caracciolo chiese la fucilazione al posto dell’impiccagione, ma gli fu negato anche questo e alla crudeltà della sua morte c’é un fondato sospetto di risentimenti personali di Nelson. Egli sovraintese al processo e all’impiccagione facendo poi buttare il cadavere in mare.
Caracciolo morì come un delinquente, ma fu salutato giustamente come eroe e primo martire della nuova Italia.
Le condanne furono 1251, di cui 120 a morte, una cifra elevata, fra gli uccisi il fior fiore della classe intellettuale: Ettore Carafa, conte di Ruvo, Giuseppe Colonna dei Principi di Stigliano, Gennaro Serra dei duchi di Cassano, Ilario Pignatelli principe di Stromboli, i generali Cronzo Massa e Gabriele Manthoné, il medico Domenico Cirillo, il filosofo e giurista Mario Pagano, lo storico Mario Conforti, la poetessa Eleonora Pimental Fonseca, oltre al già citato Caracciolo.
Particolarmente straziante fu il martirio della Pimentel Fonseca. La corte borbonica non gli perdonò i suoi scritti sul Monitore Napoletano e voleva che morisse nel peggiore dei modi.
Pimentel Fonseca
forse persino di questi avvenimenti un giorno la memoria ci sarà gradita
Virgilio Eneide
Forse un giorno ricorderemo questi fatti positivamente
Anche lei, di fronte alla condanna per impiccagione aveva chiesto di essere decapitata, ma non le fu concessa trattandosi quello della decapitazione, di un “privilegio riservato ai soli nobili”. Il 20 agosto di pomeriggio, fra una marea di folla accorsa al assistere il macabro spettacolo, la Pimentel, prima di essere giustiziata fu costretta ad assistere all’esecuzione di sette suoi compagni e il suo corpo fu lasciato appeso alla forca per l’intera giornata.