Ormai non ci sono più dubbi: l’aumento dei posti di lavoro e dei contratti a tempo indeterminato registrato nel 2015 è stato quasi del tutto determinato dal maxi-sconto sui contributi deciso dal governo. Non a caso, quando la decontribuzione per i neo-assunti è stata più che dimezzata, la “bolla occupazionale” si è subito sgonfiata lasciando sul terreno polemiche e delusioni. Uno scenario che molti avevano previsto (sia pure non in questi termini) e che, di fatto, ridimensiona non solo le aspettative del premier, Matteo Renzi, ma sconfessa sul campo tutti coloro che avevano trasformato il Jobs Act e, con esso, l’abolizione dell’articolo 18, in una sorta di “bacchetta magica” in grado di creare, da sola, milioni di posti di lavoro. Non è andata così.
I dati diffusi ieri dall’Inps, con la brusca frenata dei contratti a tempo indeterminato (-33,4% rispetto allo stesso periodo del 2015) e il forte calo del rapporto fra lavori stabili e quelli precari (-77%) mostra soprattutto una cosa: il lavoro non può essere creato con leggi o decreti. E, a questo punto, resta anche da chiedersi se davvero le ricette messe in campo dall’esecutivo siano state davvero quelle più giuste per invertire il trend e dare una speranza ai milioni di giovani disoccupati che rischiano di saltare a piè pari l’appuntamento con il mercato del lavoro.
La decontribuzione è costata 30 miliardi di euro, spalmati in tre anni. Se a queste risorse aggiungiamo i 20 miliardi necessari per coprire il bonus di 80 euro deciso dall’esecutivo, arriviamo ad un tesoretto di 50 miliardi che, nei fatti, ha prodotto poco o nulla sul versante della crescita e dell’occupazione. La stessa dose di flessibilità introdotta con il Jobs Act non è servita, di per sé, a incoraggiare gli imprenditori a fare nuove assunzioni.
I dati, insomma, dimostrano ancora una volta che, senza una vera crescita economica e, soprattutto, senza un’adeguata politica industriale e manifatturiera in grado di spingere sul pedale dei nuovi investimenti produttivi, difficilmente si può creare vera e buona occupazione.
Certo, con questo, sarebbe un errore ridimensionare la portata della riforma sul mercato del lavoro decisa dal governo. Il Paese ha un disperato bisogno di interventi strutturali per affrontare le sfide che il mondo globalizzato impone alle imprese che vogliono restare competitive e conquistare nuove quote di mercato. Ma, molto probabilmente, se si fossero utilizzati i 50 miliardi per ridurre l’Ires e l’Irap o per tagliare l’Irpef, forse il risultato sarebbe stato diverso: più che la breve illusione di una “bolla occupazionale” avremmo avuto, forse, una più duratura crescita dell’economia reale e dei posti di lavoro. Proprio quello di cui il Paese, oggi, ha più bisogno.
Fonte: L’Arena