di Angela Scognamiglio
Certo, è l’isola di Arturo e di Elsa Morante. Certo è l’isola di Graziella e Lamartine. Ed è l’isola de “Il Postino”, vale a dire di Troisi, Noiret e Maria Grazia Cucinotta. Ma è anche l’isola di chi, a una certa altezza del suo percorso biografico, decide di strappare con la vita sul Continente e sceglie Procida come destino. Intrecciando con l’isola, di recente divenuta capitale italiana della cultura 2022, parte considerevole del suo buen retiro. Tra questi c’è Romolo Runcini, massimo esperto internazionale di arte e letteratura del Fantastico, che la scoprì dopo anni di ferie estive trascorse tra Ustica e le Eolie. “La scoprì per non lasciarla più. Se non quando una incipiente cecità senile lo costrinse a tornare a Roma con la moglie Giuliana, sorella dell’attrice Carla Gravina”. Parla Claudio D’Aquino, giornalista che a Romolo Runcini, e alla sua permanenza sulla terza, più piccola, ma anche più seducente “perla” del Golfo di Napoli, ha dedicato un romanzo: “I tarocchi di una vita fantastica”, pubblicato nel 2004 dalla editrice DenaroLibri. Il sudonline.it lo ha intervistato.
In quali circostanze ha conosciuto il professor Runcini?
Nei primi anni Ottanta, da studente dell’Istituto Orientale di Napoli, dove ha insegnato per venticinque anni Sociologia dell’arte e della letteratura. Fu l’unico docente a consentirmi, dopo due esami sostenuti con lui, di svolgere la tesi di laurea sul “Castello dei destini incrociati di Italo Calvino”, autore che ho sempre considerato un intellettuale singolare e uno tra i prosatori più fecondi del Novecento. Un romanzo sui generis, in cui i protagonisti perdono l’uso della parola e sono indotti a raccontare le loro vite mediante i Tarocchi, che diventano simboli e snodi narratologici invece che strumenti divinatori. Messi in fila una dietro l’altra, le carte degli arcani maggiori e minori inanellano le storie dei convenuti a un inusuale convito medievale. Ecco, è il medesimo stratagemma che viene utilizzato nel mio libro per dispiegare la vicenda biografica di Runcini. Passa per i tarocchi la sua prima infanzia al seguito del padre generale dell’Esercito. La permanenza durante la guerra nel Seminario Lombardo, dove rischia di finire alle Fosse Ardeatine e si salva fingendosi seminarista. Sempre i tarocchi suggeriscono l’incontro e l’amicizia con Federico Fellini…
Il romanzo è totalmente ambientato a Procida, non è così?
Per la gran parte, fatta eccezione per prologo ed epilogo che in sostanza descrivono rispettivamente partenza e rientro del giovane protagonista dal molo di Pozzuoli. A Procida egli arriva su invito di Runcini, perché il professore dice di avere “carte da mostrargli”, utili per la sua tesi. Ma c’è un equivoco in agguato, ossia il malinteso sulla data in cui Runcini aspetta il giovane. Quando quest’ultimo arriva a Palazzo Ferrajoli, dove Runcini ha abitato, e bussa al citofono, il professore è sul punto di partire per Roma, dove deve sbrigare commissioni urgenti. Ed è così che il viaggio di un giorno del giovane studente diviene fortuitamente una permanenza per l’intero weekend. In assenza di Runcini, che intanto va via come aveva programmato, ma in compagnia dei suoi due gatti, peraltro piuttosto inquietanti già dal nome: Raky e Belfagor.
E le carte a cui il professore si riferiva?
Va da sé che non si tratta di fotocopie e nemmeno di appunti del professore, che in verità non ha mai usato il personal computer, ma la penna con cui infittiva decine di quaderni di vecchia foggia, da affidare poi alla copisteria solo per ricavare una bozza da girare all’editore.
E che cosa trova, invece, il giovane sullo scrittoio del professore?
Solo un mazzo di Tarocchi miniati nella bottega cremonese di Bonifacio Bembo, tra il 1442 e il 1444, per il duca di Milano Filippo Maria Visconti. Sono gli stessi che utilizza Calvino nel suo romanzo. Saranno proprio quelle le carte che suggeriranno al giovane lo sviluppo del racconto con gli episodi salienti della vita del suo maestro, nel corso del sabato e domenica trascorso nella casa affacciata sulla baia di Punta Pizzaco. In compagnia dei gatti, come dicevamo, dal comportamento bizzarro e piuttosto ansiogeno. E decine di cimeli ispirati al culto della paura, maschere voodoo e giocattoli d’epoca che di notte sembrano animarsi come automi del film Blade Runner.
Palazzo Ferraioli non è molto distante dalla Corricella e da Terra Murata, giusto?
Sì, sono luoghi ai quali Runcini era molto legato, tanto che ogni giorno, nel primo pomeriggio, compiva il suo circuito aerobico da casa al porto e ritorno, passeggiando a passo sostenuto. In realtà non mancava mai di decantare questi luoghi con amici e collaboratori, che volentieri ospitava a casa o in un residence nelle vicinanze. E tutto ciò molto prima che Procida si imponesse all’attenzione dei media come location di film importanti.
Perché il professore nato a Potenza, vissuto a lungo in diverse città italiane e romano d’adozione, decide di trasferirsi con i suoi trentamila volumi proprio a Procida?
A Roma ha vissuto molti anni in via Monte Zebio, non lontano da viale Mazzini, perché dopo la laurea in filosofia vinse il concorso da programmista in Rai. Procida invece fu una scelta non dettata da necessità, ma totalmente libera, perché per lui era per davvero il “luogo dell’anima”. Il luogo della sospensione della vita convulsa della metropoli per una piena immersione in un habitat dove regna la lentezza. Dove trova la pace e la sua giusta dimensione, al punto da non voler più tornare alla vita di prima. Per caratteristiche psicologiche e per indole Runcini era un artista prestato alla saggistica. E’ stato uno scultore piuttosto capace, che ha preservato e alimentato il “bambino” che era in lui e che in fondo ha sempre guidato il suo desiderio.
Può essere più chiaro su questo punto?
Certo. Il professore che faceva collezione, oltre che di libri, giocattoli a molla, pupazzi, trenini, balocchi del secolo scorso, con ogni probabilità ha trovato sull’isola l’atmosfera tipica della sua infanzia, il ritmo della vita tattile, l’habitat in cui far fluire liberamente la sua inclinazione a guardare i fatti della vita con l’occhio puro dell’eterno fanciullo. Il tempo rallentato che scorre scandito da abitudini consolidate, come i riti della settimana della Pasqua. Oltre a una solarità e intensità di azzurro tipicamente mediterranee colte dal terrazzo di casa, con vista sull’intera isola. E del resto lui che ha studiato a fondo il barocco, considerava ognuna delle chiese di Procida uno snodo di una cultura dalle forti radici identificative, ma dal carattere schiettamente arcaico.
Insomma, è stato un costruttore dell’immagine di Procida come capitale culturale?
Indubbiamente sì. Perché è lì che dopo il 1997 si trasferisce con il fermo intento di fare dell’isola un osservatorio sul mondo del Fantastico. Ed infatti nel 1999 riuscì ad organizzare proprio a Procida un importante convegno sul “Fantastico alle soglie del terzo millennio”, affiancato dall’associazione “Calibando”, guidata dalla sua allieva e sodale, la professoressa Bruna Mancini. Sempre a Procida, con l’associazione culturale “Renovatio”, dedicò tanto tempo nel recupero e la sistemazione di migliaia di libri appartenenti all’abbazia di San Michele.
Ha preferito vivere tanti anni sull’isola di Arturo e non a Roma o a Napoli…
Il suo rapporto con Roma era piuttosto conflittuale e quando lasciò un posto ben remunerato alla Rai per scegliere l’Orientale, in fondo decise di dare un taglio alla vita nella capitale e a un periodo non felice nell’azienda allora intrisa di un’aura clericale e spirito burocratico: la Rai di Ettore Bernabei. Di Napoli l’affascinava l’anima barocca e caravaggesca e i cento miti, leggende, misteri racchiusi nella sua vicenda ultramillenaria. Ma Roma o Napoli sfibrano, esauriscono, distraggono con la loro vita mondana e nevrotica. Non sono i luoghi giusti per studiare. E Runcini non ha vissuto un solo giorno della sua esistenza senza leggere o scrivere, fino a otto ore al giorno se non più.
Quindi l’habitat di Procida gli fu congeniale?
Al punto che definiva Procida una stella caduta nel mare. L’atmosfera di solitudine assorta e la pienezza del mare circostante sono elementi che lo hanno affascinato fortemente. Stare sull’isola a suo parere consentiva di sperimentare la dimensione privilegiata per la difesa e l’identità dell’individuo, mentre amare il mare significava in un certo senso amare l’umanità, che dista dall’isola poche miglia. E’ convinto che, staccandosi da un agglomerato urbano e continentale, chiudendosi in un ambiente limitato, l’individuo trovi una più forte spinta a conoscersi e, al tempo stesso, richiedere il confronto – e il dialogo – con il prossimo. Perché, come ha scritto di suo pugno, nella città siamo costretti a vivere insieme agli altri in maniera molto anonima, nell’isola possiamo chiuderci in spazi privati con libertà, senza mai precludere il richiamo e l’offerta dell’amicizia.