di Michele Eugenio di Carlo
Nell’ambito del florido dibattito illuministico di fine Settecento favorito da Ferdinando IVdi Borbone si faceva sempre più pressante la richiesta di riformare il sistema agro-pastorale migliorando la distribuzione della proprietà attraverso l’incameramento dei beni feudali ed ecclesiastici e la loro vendita frazionata in unità colturali economicamente valide, liberate dal gravame degli usi civici.
Ferdinando IV, educato alle «lezioni» di Bernardo Tanucci e non dimentico dei suggerimenti del padre Carlo di Borbone, aveva ormai acquisito la fondata convinzione che l’agricoltura andava rilanciata, riducendo drasticamente il latifondo e assegnando i terreni feudali incolti ad una moltitudine di braccianti, contadini, piccoli coloni, «massari di campo», che da salariati precari avrebbero dovuto convertirsi in piccoli e medi coltivatori diretti. Il 23 febbraio 1792 veniva emanata la prammatica XXIV De Administratione Universitatum, data la «scarsa utilità proveniente dai terreni demaniali di varia specie, de’ quali abonda il Regno […] per fare ovunque fiorire la meglio intesa agricoltura, sorgente primordiale delle ricchezze, in quanto fosse compatibile collo stato delle popolazioni[…]In tale considerazione ha voluto S. M. prescrivere il modo di rendere attiva l’industria dei suoi sudditi; indicando le regole generali da eseguire una tanto benefica operazione […].Col presente editto, adunque, in forma d’istruzione si permette di censire i terreni demaniali di qualunque specie, giusta il prescritto in esso, ed a tenore della norma data in seguito di questo, e l’emolumento che ciascuna Università ne ritrarrà, sarà principalmente impiegato in disgravio della classe più bisognosa con approvazione di S. M.».
Brienza(foto Di Carlo)
La prammatica stabilisce all’art. 4 che nella «censuazione» (enfiteusi1 di terreni coltivati) dei demani universali «si preferiranno i bracciali2 nei terreni più vicini alle popolazioni; dandone loro nella misura, che possano coltivarli colla propria opera, ed in quelli più lontani a’ cittadini coltivatori più facoltosi dae sercitarne una più estesa coltura»; all’art. 5 ribadisce che «fatta la scelta de’ meno provveduti di terreni, quei, che rimangono, saranno assoggettati alla sorte»; all’art. 6, relativamente ai demani universali adibiti al pascolo, si legge che «saranno ripartiti tra i possessori degli armenti, e per la picciola industria de’ cittadini non possidenti, qualora sia richiesto, si lascerà qualche porzione per loro uso solamente, pagandone discreta fida», a beneficio della Comunità.Non manca, nell’art. 10 della prammatica, l’attenzione verso corrette pratiche ambientali tali da prevenire erosioni del suolo, frane e smottamenti, riguardo a territori scoscesi attraversati da fiumi e da torrenti dove «si dovrà pattuire di doversi soltanto piantare, e non coltivarli».
Riguardo ai demani feudali, l’art. 12 sancisce che al barone deve essere attribuita la quarta parte del demanio «per uso de’ suoi animali e cultura, e l’altre tre parti si dovranno censuare colle regole di sopra prescritte per le diverse qualità de’ terreni». Quindi, le tre parti restanti devono andare ai Comuni che devono censirle ed assegnarle in enfiteusi a braccianti, contadini, coloni, massari di campo, a compenso della perdita dell’esercizio degli usi civici3.
La prammatica non consegue i risultati tanto attesi dal popolo quanto temuti dai baroni, non ha effetti pratici nella realtà socio-economica del Regno, né tantomeno nella realtà, ben più complessa e intricata, che la Regia Dogana con la transumanza ha intessuto nella Capitanata. Ma determina negli strati bassi del ceto rurale, per la prima volta presi in seria considerazione, la corretta convinzione che rivendicare condizioni migliori di vita, ottenendo un pezzo di terra incolta da coltivare, sottratto al dominio assoluto del barone, senza più vincoli e pesi feudali da sopportare, senza abusi e angherie umilianti e degradanti di ogni sorta da subire, non solo è del tutto legittimo e naturale, ma è condizione essenziale per uscire dai secoli bui del feudalesimo e per superare quell’economia chiusa e limitata che da secoli li relega nel «limbo della Storia».
I baroni non vedono di buon occhio la fine di un sistema che li ha visti padroni assoluti non solo dei beni patrimoniali, ma anche degli esseri umani ridotti a semplici «giumenti», soggetti a una giurisdizione civile e penale iniqua, asfittica e immorale.
I baroni hanno bisogno di tempo per maturare e realizzare come trasformare a loro vantaggio la perdita dei vecchi privilegi feudali con l’acquisizione di nuovi privilegi: quelli dell’alta borghesia agraria, classe nella quale confluiranno, approfittando delle leggi eversive napoleoniche, per continuare a gestire con incuria estesi latifondi in gran parte usurpati grazie alla complicità e al tacito consenso della nuova classe borghese emergente al potere. Il nuovo gruppo sociale che si approprierà illecitamente delle terre che avrebbero dovuto essere assegnate in quote a braccianti e contadini, per favorire la piccola e media proprietà coltivatrice.
Il fallimento del tentativo riformistico di rinnovare la società e lo Stato, di dare impulso all’economia favorendo la «pubblica felicità», segna la rottura di gran parte della cultura illuminista con il riformismo assolutistico dei Borbone.
Nel 1793, all’indomani della prammatica e alla scadenza del contratto sessennale dei pascoli regi, si prospettano due soluzioni al governo e all’amministrazione della Regia Dogana di Foggia: rinnovare il contratto di affitto o concedere la censuazione. I locati, riuniti in assemblea generale, si pronunciano a maggioranza a favore dell’affitto e il governo si adegua a tale volontà.
Il 23 gennaio 1799 le truppe del generale Jean Étienne Championnet entrano a Napoli dando vita alla Repubblica partenopea. Francesco Mario Pagano, lucano di Brienza, uno dei “cervelli migliori d’Europa”, noto per le idee liberali di sostegno alle fasce deboli, viene subito inserito tra i venticinque membri del Governo e, attivissimo nel Comitato di legislazione, fa celermente approvare leggi che aboliscono i fedecommessi, le primogeniture, la tortura, importanti diritti feudali, secondo il suo «progetto» di repubblica, sintetizzato in queste frasi ispirate a nobili principi:
«La libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all’oppressione sono modificazioni tutte del primitivo diritto dell’uomo di conservarsi quale la natura l’ha fatto e di migliorarsi come la medesima lo sprona. La libertà è la facoltà dell’uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso4».
I “Saggi Politici”, costituiscono l’opera principale di Pagano, pubblicati tra il 1783 e il 1785, quando il grande giurista aveva ancora piena fiducia nella monarchia illuminata, convinto che Ferdinando IV avrebbe utilizzato i suoi studi sulla riforma del diritto penale per compiere passi avanti.
1 L’enfiteusi è il diritto di godere di un fondo altrui con l’obbligo di migliorarlo e di pagare al proprietario un canone. L’enfiteusi può essere perpetua o temporanea per non meno di 20 anni. L’enfiteusi comporta il diritto di affrancazione del fondo rustico che, attualmente, è regolato pagando una somma pari a 15 volte il canone annuo.
2 Braccianti.
3Prammatica XXIV del 23 febbraio 1792 «De Administratione Universitatum». Da http://www.demaniocivico.it/public/public/439.pdf
4 F. M. PAGANO, Progetto di costituzione della Repubblica napolitana presentato al governo provvisorio dal Comitato di legislazione, in Riformatori napoletani (a cura di F. VENTURI), Milano-Napoli 1962, pp. 909-910.
5 A. GARGANO, Francesco Mario Pagano, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (http://www.iisf.it/scuola/pagano/pagano.htm).
contro i privilegi di una società ancora feudale. Ma la rivoluzione francese e l’esecuzione capitale in Francia di Maria Antonietta, sorella della sovrana del Regno di Napoli, comporta una svolta repressiva e autoritaria della monarchia borbonica che conduce Pagano, nella seconda edizione dei Saggi del 1795, ad una decisa presa di posizione antimonarchica. Imprigionato nel 1796 per cospirazione e rilasciato per mancanza di prove, nel 1798 lascia Napoli per Roma5.
Brienza, monumento a Francesco Mario Pagano(foto Gentile)
Tornato a Napoli durante la rivoluzione, la difende con le armi in pugno. Con grande forza morale, nella piena facoltà di esprimere con libertà idee e pensieri, Francesco Mario Pagano saleimpavido e distaccato sul patibolo il 29 ottobre del 1799, lo stesso giorno e nella stessa piazza del Mercatoin cui nel lontano 1268 era stato giustiziato Corradino, che nel1789gli aveva ispirato un’opera teatrale. Ironia della sorte e fine di un’epoca.
Non poteva prevederePagano che un popolo intero si sarebbe schierato a difesa del proprio sovranoe che la successiva occupazione militare francese del 1806 del regno di Napoli avrebbe comportato l’uccisione di circa 60 mila conterranei.
Non avrebbe mai potuto immaginareche nel 1802 Napoleone Bonaparteavrebbe rispristinato lo schiavismo abolito dalla Rivoluzione francese e che sul finire del1804 si sarebbe fatto incoronare Imperatore portando guerre, carestie e morte in tutta Europa e insediando,nei nuovi regni conquistati,amici e parenti.
Ci avrebbe pensato più tardi Vincenzo Cuoco a spiegare che nessuna rivoluzione è possibile contro e senza il popolo.