Giuseppe Ferrari è un filosofo, patriota ed uomo politico allievo di Giandomenico Romagnosi, vissuto nel XIX secolo. Le sue idealità furono giusnaturalistiche. Auspicò un autentico repubblicanesimo laico e votato alla costruzione di un sistema Paese del tutto nuovo. Mazziniano, la sua figura sembra dover rimanere isolata da altri contesti politici, vuoi i cattolici liberali alla Rosmini, ad esempio, o anche alla Gioberti. Eppure queste poche righe smentiscono alcune asserzioni. Giuseppe Ferrari fu introdotto nei circoli francesi da lettere di presentazione dell’abate Peyron e di Lorenzo Valerio. Entrambi furono in stretti rapporti con il personaggio della mia tesi, padre Gioacchino Prosperi, e con l’amico torinese dei padre prosperi, Gioacchino De Agostini. Quest’ultimo milito col Valerio nell’Accademia letteraria Pino a Torino e scrisse per Lorenzo Valerio un’Ode in sua memoria. Era stato il Valerio un suo allievo in Piemonte. Probabile. Il duca Borbonico, che nel 1839 incaricò padre Gioacchino Prosperi delle sue trasferte missionarie in Corsica, ben conosceva sia le questioni del Prosperi che del De Agostini, che con tutta evidenza, viste le lettere del religioso lucchese, andavano in tandem. Rappresentando ciascuno il proprio sovrano in un’ottica di collaborazione politica verso quel Santo Regno italico, che il laicismo italo Sardo ancora nel 1846 sopravanza. Così scrive padre prosperi in una sua pubblicazione. Carlo Ludovico stava a padre prosperi come Prosperi e Carlo Alberto a De Agostini. Questa era l’equazione che si qui è stata ignorata. In mezzo i Bonaparte che nell’Isola Bella avevano un particolare afflato. E a giudicare dall’impegno mazziniano, erano votati a riscattarsi politicamente. A riprova di ciò una lettera di Antonio Panizzi.
Il rivoluzionario allievo di Romagnosi che Antonio Panizzi “abboccò” da Londra, ancora nel 1858, per un’Italia federale
In una lettera del 31 dicembre 1858 da Londra il futuro Sir Panizzi scrive al toscano Vincenzo Salvagnoli, con cui era in corrispondenza, dicendogli che ha fatto uso appropriato del rescritto del Ferrari, come già gli aveva anticipato. Ma soprattutto esprime al Salvagnoli la poca convinzione circa l’abboccamento di quest’ultimo all’ottimo Signore che Salvagnoli ha visitato recentemente e che si è offerto come collaboratore e mediatore nella causa nazionale. Non ha fiducia in questo abboccamento Panizzi sostenendo il motto “come casco dalla padella della brace”. Cita questa frase, non la persona abboccata. Ma sottolinea che quella frase è di Messer Ludovico con riferimento a Ludovico Ariosto, di cui Panizzi si è occupato. In realtà l’abboccamento non è riferito all’Ariosto, ma è un modo in codice per definire l’abboccamento di Carlo Ludovico di Borbone. Questo è palese grazie ad una lettera presente all’archivio di stato di Lucca del 1838 appartenuta alla marchesa Eleonora Bernardini, che la stessa aveva inviato all’allora Segretario di stato lucchese Ascanio Mansi, quando a regnare sul Ducato di Lucca era proprio Carlo Ludovico di Borbone Parma. Cito testualmente: “ L’avvocato Giacomo Ferrari modenese che vi presentai [al Mansi] ieri sera mi fu caldamente raccomandato a Firenze presumo i Bonaparte che qui vivono o si recano spesso] onde procurargli ottenergli il permesso di soggiornare in Lucca. Rammentando io le molte inquietudini avute l’anno scorso ( e inutilmente!) Per consimile oggetto volli esimermi da ogni impegno e addussi per scusarmi la mia assenza da Lucca, la poca aderenza che avevo coll’attuale Direttore della nostra Polizia e la maggiore utilità di qualche altra raccomandazione. Questa gli fu data, ed io non presi nessun incarico. Solo, riflettendo meco stessa e tutto il bene che mi dice del soggetto, della sua sapienza, onestà, istruzione e vedendolo condannato a Modena! Contumace! E tre anni di prigionia dopo quei tali considerando che precedono la sentenza, restai per nemmeno esser meritevole di riguardo. Se non poteva ottenere la stessa grazia da parecchi altri ottenuta. Fu allora che senza darne notizia a veruno feci sapere al Pieri [capo della Polizia] da altre persone ( che mi nominarono non so perché, ma forse per tenersi fuori dalle responsabilità) la prossima venuta a Lucca del prefetto Ferrari e le sue qualità sembrarono meritare fosse esaminato il suo caso prima di prendere una risoluzione, non ignorando che talvolta non si vuol tornare indietro quando si è a prima giunta esternata una qualche disposizione. Giunta in Lucca ove sapevo esser egli stato accolto in modo da dare ogni speranza, tenevo il suo affare come già accomodato quando sento che prova delle difficoltà e delle complicazioni di cui non ben si penetra la vera ragione. Mentre l’avvocato Ferrari lascia che le persone interessate in suo favore facciano i passi, da loro giudicati opportuni, vorrebbe che voi [Ascanio Mansi], di cui ha concepito ottima opinione, fosse messo al fatto del suo affare e dell’esser suo, ed è a tal fine che vi mando cacio possiate leggerlo a tutto vostro comodo, l’accluso foglio che io gli feci scrivere onde volermene il di lui vantaggio e che contiene quello che sembra sufficiente a farlo conoscere per quanto occorre molta circostanza. Frattanto, che il suddetto possa procurarsi l’onore di assegnarsi come desidera, spero vorrete dare un vostro assenso…[…]”.[1]
La marchesa protegge patrioti per conto del Duca borbonico e, visto il riferimento a Firenze, per conto dei Bonaparte. Possiamo anche pensare ad un coinvolgimento degli stessi Asburgo Lorena, senza troppo convincimento. Era maggiormente evidente che chi non faceva Asburgo aveva maggiori possibilità di lottare contro il nemico austriacoQuel Giacomo Ferrari sarà in Modena un importante editore. Qualche attinenza con Giuseppe Ferrari, il giurista? Presumo di sì. Giacomo Ferrari vanta autentiche tradizioni familiari di stampo mazzinano. Anche Giuseppe Ferrari nel ducato di Parma ebbe serrati contatti,; pensiamo sempre in Parma al conte Tito Livio Zambeccari, Mazziniano, o al conte Linati, acceso fautore e sostenitore di patrioti, sempre di stampo mazzinano. Come quel Fiorenzo Galli di Carrù che divenne il suocero di Gioacchino De Agostini, che il conte Linati cita come l’antesignano del moderno giornalismo piemontese.
Nel 1858, esattamente venti anni dopo la lettera, il Duca borbonico non è più sovrano del suo Regno parmense. Suo figlio è deceduto ed a governare è suo nipote Roberto. Il Duca si batteva per una federazione che potesse includere i vari sovrani della penisola in un più ampio disegno federale. Giuseppe Cattaneo è un acceso repubblicano, ma federalista. Crede fermamente che il ruolo della Francia sarà essenziale nelle vicende della penisola. Si batte per affermare questi suoi convincimenti. Nizza e la Francia erano sicuramente ormai patria elettiva. E dunque lottò per l’Unità italiana anche perché veder scomparire il Granducato di Toscana che lo aveva spodestato dovette essergli gradito. Ai tempi del Ducato borbonico Carlo Ludovico auspicò e si batte per cambiamenti sostanziali in Italia, vedendo di buon grado un cambiamento autentico, guardando all’Europa. In questo anche la sua conversione al protestantesimo, molto discussa, rientrava nel novero delle medesime scelte politiche. Nel 1858 i giochi non erano ancora fatti e la volontà di Giuseppe Ferrari per una laica confederazione di Stati rientrava nell’ottica che il Duca borbonico aveva perseguito nei suoi anni migliori.
Il Duca vinto forse, ma mai domo. A differenza, parrebbe, di quanto sin qui gli si è attribuito.nel 1839
Nelle lettere di Antonio Panizzi a Vincenzo Salvagnoli, peraltro un cattolico liberale, segno evidente che queste cesoie politiche sono più ad uso e consumo di chi le pratica, emerge dunque un quadro interessante del fuoriuscissimo del tempo.
Fu il Salvagnoli uno dei più accesi fautori dell’annessione della Toscana al Piemonte. Il suo stesso abboccamento a Giuseppe Binda[2] residente ancora in Livorno, e fedele quest’ultimo al Granduca, ci portan nella giusta direzione. In quel 1858 si proponevano i nostri ad accattivarsi qualche personaggio scomodo, Si citano patrioti come Poerio, ma anche Luigi Settembrini, uomini del sud, che lottarono strenuamente per una costruzione politica federale nel nostro Paese. Un contesto nel quale i contatti inglesi di Panizzi, che nel 1839 a Lucca non era venuto unicamente per risistemare e catalogare la biblioteca del Duca. Avrebbe dovuto riuscire Antonio Panizzi in un’impresa che neppure fu posta in essere. La. sfiducia di Panizzi verso l’operato di Salvagnoli ha dunque una sua ragion d’essere. Senza nulla togliere ai convincimenti del Duca borbonico.
[1] Lettera del 26 dicembre 1838 in archivio di stato di Lucca, Carte Mansi, filza n. 4.
[2] Giuseppe Binda fu console onorario a Livorno e mai giustificò l’annessione al Regno Sabaudo, a differenza di Romagnosi.