Tempi difficili. Chi ci vive dentro quasi ci fa l’abitudine, forse in quanto, guardandosi intorno, gli altri non sembrano stare proprio meglio.
Gelsomina, in quegli anni bui di guerra e di distruzione, cresceva quattro maschietti, cui cuciva i pantaloncini (corti, come si portavano all’epoca), ricavandoli dai calzoni del marito.
Per lui il lavoro era un altro: rigirare i colletti sdruciti per migliorare l’aspetto delle camicie. Fortunatamente il cibo scarseggiava, ma c’era. Poco, che lei spesso neanche aveva il coraggio di mangiarlo e passava un dito sui bordi del piatto che dava ai figli, saggiandolo soltanto.
Gaetano era smunto in viso, gli abiti gli ballavano addosso. Lei era bella lo stesso, ma magra, ascetica, con gli occhi grandi nel viso scarno.
Vivevano in una casa antica, dove l’acqua era sì, corrente, ma nel bagno, altro che doccia e vasca idromassaggio! A stento c’era un lavandino minuto, dove non le riusciva di lavare i figlioletti, già troppo grandi per quelle misure.
Lui tornava a casa e trovava un ambiente sereno, una moglie con cui discuteva del solido e dell’etereo. Dell’etereo facevano parte le loro discussioni sull’aldilà e sugli spiriti. Esistevano? Si potevano vedere?
Forse la causa di quei discorsi era da ricercarsi anche nel fatto che lui era iscritto, quasi per dovere (sul lavoro, da bancario, i superiori al tempo lo esigevano), ad un gruppo massonico tipico dell’epoca di cui dovette in seguito (molti anni dopo), bruciare un bel po’ di materiale, quando la massoneria cominciò a “puzzare di bruciato”. Ebbene, Gelsomina intuiva che il marito seguisse qualche tipo di “seduta spiritica”, senza tuttavia crederci.
Però, di cose strane nella loro vecchia casa ne erano accadute. Di tutte la più tremenda, collegata alla morte per una infezione puerperale, della loro giovanissima cognata, moglie del fratello. Ebbene: nelle ore in cui la povera donna si liberava della sua spoglia mortale, loro due erano a casa, quando, all’improvviso, un colpo di vento inatteso quanto inspiegabile, aveva aperto di botto il balcone del cucinino, spaventandoli, anche perché avevano visto la cosa come un segnale. In quegli stessi minuti la povera donna aveva esalato l’ultimo respiro e loro furono convinti che fosse passata a salutarli.
Discutevano, dunque, sull’anima, sui fantasmi e sul fatto che fosse possibile vederli, nell’inquietante casa antica piena di ombre, laddove la luce elettrica era ridotta al minimo e a volte mancava, sostituita da candele.
Una sera avevano trovato completamente attorcigliata la paletta per il fuoco della cucina a legna.
In una di quelle sere, prima di porre a letto i suoi bimbi, Gelsomina era andata nel bagno per riempire d’acqua un recipiente, allo scopo di lavarli. Così, mentre il marito e i figli si trovavano in camera da letto, lei, alla fioca luce delle candele lasciate in giro per la casa, si era recata nell’ingresso, laddove affacciava il bagno e, con il bacile colmo, ritornata verso l’ingresso, aveva notato una bambina.
Si era fermata, sorpresa, ad osservarla: aveva il viso in ombra, le trecce, un vestitino che le parve quello che all’epoca si definiva “da pacchianella”, ossia in uso dalla ragazzine del popolo, con la gonna arricciata e gonfia, piuttosto lunga.
Lei l’aveva guardata chiedendole, stupita:
-“Ma cosa ci fai qua? Come sei entrata?”-
Soltanto guardandola meglio, giù, verso le gambe, si era reso conto che queste erano trasparenti e, dietro di loro, si vedeva il legno della porta. Così, spaventata, aveva gettato per aria il bacile con l’acqua, scappando verso l’interno per raggiungere il marito. Entrando, con aria di trionfo, perché la cosa comprovava le sue convinzioni, aveva urlato:
-“Gaetano! Ho visto l’ombra!”-