di Claudio d’Aquino
E’ dalla fine degli anni Settanta che Singapore è stata direttamente coinvolta nella creazione del mercato dell’ Asia-dollaro costituendo una base offshore alle operazioni della rete bancaria delle eurovalute. Hong Kong si è adeguata poco dopo: nel 1982 è diventata, dopo Londra e New York, il terzo centro finanziario del mondo in termini di banche estere rappresentate. Taiwan, dal canto suo, si è “specializzata” nell’ accumulazione di riserve monetarie estere.
La Corea del Sud è divenuta uno dei maggiori investitori esteri diretti nella regione dell’ Asia orientale e sudorientale. Alla fine degli anni Ottanta le “Quattro Tigri” come gruppo hanno superato sia gli Stati Uniti che il Giappone come principali investitori dei Paesi dell’ Asean (Brunei, Filippine, Indonesia, Malesia, Singapore, Tailandia e Vietnam). è Giovanni Arrighi, professore di Sociologia alla State University di New York – Binghamton, a snocciolare in “Il lungo XX secolo” (Il Saggiatore) i dati della sorprendente ascesa finanziaria del modello asiatico, trascinato nella modernità dalla infaticabile locomotiva Giappone.
«La singolarità del Giappone e dell’ Asia Orientale – spiega Arrighi – non è adeguatamente misurata dalla continua e sostenuta espansione industriale della regione. Il segnale più importante~ è dato dal fatto che alcune delle sue entità politiche hanno registrato rilevanti avanzamenti nella gerarchia del valore aggiunto e della moneta mondiale dell’ economia-mondo capitalistica». Prima lezione. Non la crescita industriale, quindi, sta all’ origine dell’ ascesa asiatica, ma «la fondamentale unità e integrità dello sforzo dell’ intera regione» a passare al rango dei partecipanti attivi e i principali beneficiari dell’ espansione finanziaria mondiale. Perché, paradossalmente, quello che l’ impero nipponico non poté con lo sviluppo industriale e militare prima dell’ ultimo conflitto – cioè diventare centro agglutinante dell’ intera area – lo ha fatto, benché ridotto a uno status politico minore, nel consesso del nuovo ordine post-bellico sulla base di due presupposti: primato tecnico ed egemonia finanziaria. Si parla di Giappone e di modello orientale, ma si intende Mezzogiorno e Mediterraneo.
Le due realtà geopolitiche, uscite dallo stesso conflitto in ginocchio (il Giappone anche più, avendo subito un paio di bombe atomiche, che a noi sono state risparmiate), si oppongono a distanza di sessant’ anni come una immagine allo specchio. Al traguardo, sottosviluppo contro sviluppo propulsivo. Perché una forbice così divaricata? Frequenta chi è migliore di te – dice l’ adagio – e consideralo un investimento, persino nel caso ci siano spese da sostenere. Depurati della supponenza occidentale che insiste a ritenere quel modello frutto di una ideologia che assolutizza lavoro e produzione fino a realizzare una forma di capitalismo integrale, vedremmo tante cose da imparare. Anzitutto che il Mediterraneo non ci salverà se continuiamo a ritenerlo soltanto il mare delle vestigia, topos dove la cultura tempera la natura.
Tra l’ altro, anche nel mondo classico, esso fu sopra ogni altra cosa un mare di sangue. Non ci salverà nemmeno se, come mare, lo richiamiamo al ruolo di medium di comunicazione, con l’ acqua che divide ma l’ acqua che anche unisce i popoli delle due Sponde: le autostrade del mare, la logistica, i trasporti, i porti e gli interporti. Da qualche secolo abbiamo superato il capitalismo mercantile, pertanto è impensabile replicare le fortune di Repubbliche marinare e di Comuni e Signorie che fiorirono recuperando le strade consolari romane per il transito di spezie e merci dall’ Oriente.
Se ombrelloni e container non bastano, la domanda cruciale si colora di vaga memoria gramsciana: «Come ha fatto il Giappone»? Come ha fatto a spingere una nuova regione (l’ Asia orientale) a sostituire la vecchia (l’ America del Nord) come centro maggiormente dinamico dei processi di accumulazione del capitale su scala mondiale? L’ exploit nipponico ha confidato su un duplice ordine di fattori. Il Giappone non ha dovuto assumersi l’ onere dei costi militari, ma ha potuto concentrarsi su un altro tipo di guerra: la specializzazione nella ricerca del profitto da giocarsi all’ interno di una restaurazione di un’ economia mondiale ad opera degli Usa. C’ è poi un elemento ancora più importante. è quello che Arrighi chiama sistema del “subappalto atomistico”.
Estremamente stratificato, persino al livello più basso, costituito da una grande massa di aggregati domestici che si occupano delle operazioni più semplici. Ma non si tratta di un modello teso alla massimizzazione del profitto a scapito della forza lavoro da sottopagare (o pagare a nero). è il Jetro (Japan’ s External Trade Organization), il sistema del ricorso organico all’ approvvigionamento esterno da parte delle grandi imprese giapponesi. Ma le reti di subappalto giapponesi sono impegnative, soprattutto per chi ne beneficia, cioè il committente. Niente a che vedere con le reti di subappalto occidentali (e meridionali), dove le condizioni di fornitura sono mobili, instabili e da rinegoziare con estrema frequenza. Nel sistema giapponese la cooperazione tra piccole e grandi aziende è talmente stretta che la relazione tra società madri e le microimprese idealizzata come una relazione “familiare”.
E questo consente la condivisione degli obiettivi all’ interno di ciascuna rete, impedisce scalate indesiderate, consente al management di concentrarsi sui risultati di lungo termine invece che sulla redditività di breve termine. Il Mezzogiorno può essere il Giappone dell’ Area Meda? E per questa via, divenire da mare di disperati solcato dalle barche dei “rentier” una competitiva area-sistema del mondo? è questa la domanda da imputare sull’ agenda degli assessorati al Mediterraneo, nel giorno stesso in cui i governatori del Sud li istituiranno.
fonte: La Repubblica (Napoli)