14 giugno 1837, ore ventuno, ovvero le cinque pomeridiane ( ore venti locali in base all’ atto di morte) ci ha lasciati Giacomo Leopardi.
Secondo alcuni quel giorno, mentre era nella casa di vico Pero 2, quartiere Stella, in Napoli, ospite presso Antonio Ranieri e famiglia, prima di morire scrisse “Il tramonto della luna”.
A giudizio dei più invece la poesia fu scritta dopo “La ginestra”, probabilmente nel maggio 1936 durante il soggiorno a Villa Ferrigni, sopra Torre del Greco, alle pendici del Vesuvio, ove si era riparato per sfuggire al colera imperversante in città.
Restano di incerta datazione gli ultimi sei versi, vergati dal compagno Antonio Ranieri. Una versione dei fatti basata sulla testimonianza dello storico tedesco Heinrich Wilhelm Schulz , coetaneo e ammiratore del poeta, che aveva fatto visita a Leopardi due ore prima che morisse, vorrebbe che i sei versi finali fossero le ultime parole scritte in punto di morte. Giacomo infatti, già steso nel letto, le avrebbe tracciate su di un foglio e donate al visitatore tedesco. I critici hanno infine rigettato l’ipotesi romantica che legge in quei versi una sorta di testamento poetico dettato con l’ultimo respiro, anche se se ne evince in tutta evidenza il senso di un definitivo congedo dalla vita.
La luna è la più grande allegoria poetica ed esistenziale di Leopardi. Il volto della luna era stato lo specchio in cui aveva riflesso il suo volto, dall’adolescenza e fino alla fine. Nei suoi versi era apparsa volta a volta “silenziosa…aurea..candida..cadente…recente…graziosa…quieta…diletta…tacita…cara…vergine…intatta…rugiadosa…”
Ora, in quell’ultimo “Tramonto…” la sua luce si dileguava e con lei lo splendore “che all’occidente / Inargentava della notte il velo”. E, priva della sua luce, la notte sprofonda nell’oscurità.
Un’oscurità nella quale, via via che ci si addentra nella ricostruzione di quel 14 giugno e delle vicende kafkiane che ne seguirono, si spalanca impenetrabile anche davanti a chi si ostini a cercare la verità storica e biografica sulla morte del nostro massimo poeta.
IL FINALE COI SEI VERSI AGGIUNTI DI MANO DEL RANIERI
Il testo autografo de “Il tramonto della luna” (posto on line sul sito della Biblioteca di Napoli) si interrompe al verso in cui la luce del sole dileguerà la notte e, nel suo ciclo perenne, tornerà sfolgorante a inondare la natura; il finale lo si legge su un foglio palesemente aggiunto con gli ultimi sei versi, trascritti di pugno del Ranieri con grafia regolare e nitida.
In passato si è messo in dubbio che fossero proprio di Leopardi quei versi. In effetti la presenza della parola “Dei”, in base ad una lettura che rispetti la concezione leopardiana della “natura ognor verde” (v.292 della contemporanea “La ginestra”) – che riflette il “fuoco semprevivo” e l’idea di physis del più antico pensiero dei Greci (ved. E. Severino), e in cui la Natura è il kosmos che perennemente rinasce in un circuito senza fine – suscita alcuni interrogativi…
Lo Schulz nel 1840 pubblicò la trascrizione autografa in suo possesso e il testo integrale venne pubblicato per la prima volta da Ranieri nell’edizione fiorentina della Lemonnier del 1845. Tra le prime edizioni integrali a seguire, si ricordano quella di Francesco Moroncini nella sua edizione critica (Cappelli, Bologna nel 1927), e quella di Leone Ginzburg (Laterza, Bari, 1938). Infine il quesito se fossero davvero suoi quei sei versi ha trovato risposta affermativa da parte di autorevoli studiosi. Tuttavia, nonostante le varie ricostruzioni esistenti, a tutt’oggi resta ancora non del tutto chiarito il momento in cui il poeta completò col finale quella poesia emblematica.
Ma, soprattutto, molti e ben più pesanti sono gli interrogativi senza risposta che, a partire da quel 14 giugno, si sono susseguiti vorticosamente, ricadendo pur sempre in capo a colui che quei versi conclusivi aveva vergato, forse sotto dettatura o trascritto, ossia Antonio Ranieri.
NAPOLI, 14 GIUGNO: LA MORTE IN UNA COMMEDIA PIU’ CHE PIRANDELLIANA
Ecco come Ranieri descrive le ultime ore dell’amico.
Il 13 giugno, in Napoli, fu festeggiato l’onomastico di Antonio Ranieri, e Paolina donò a Giacomo “due cartocci di confetti cannellini di Sulmona che pesavano una libbra e mezzo ciascuno”, da lui divorati in quattro e quattr’otto. Erano le cinque pomeridiano (ventun’ora locale) e Giacomo aveva iniziato a mangiare pranzo. La carrozza per Torre del Greco era pronta nella via sottostante. Egli, lasciando il brodo chiese una granita di limone doppia. Poi esclamò: “mi sento un pochino crescere l’asma…si potrebbe riavere il Dottore?”
Davvero Giacomo, nella sua infantile avidità di dolci (in cui – se veritiera – non è difficile leggere il bisogno di compensazioni affettive e gratificazioni di cui sempre fu privato) in punto di morte aveva divorato una quantità abnorme di confetti? O magari morì esclusivamente per “idropericardio”? O invece, come molti hanno sostenuto, era morto di colera, in quei giorni terribili in cui a Napoli “la gente cadeva morta a migliaia”? O magari per un’altra causa sconosciuta?
Nel “Sodalizio”, nel resoconto dettagliato di quel giorno stranamente non è nominato lo Schulz, (presente due ore prima e dichiarato destinatario del dono dei sei versi autografi del “Il tramonto della luna”). Solo la sorella, moglie del Ferrigni, arriva in extremis; gli altri famigliari troppo “tardi” (per inciso, a fine ‘800 una poco nota dichiarazione scritta di un certo Leonardo Anselmi, notaio ligure qualificatosi testimone, sparigliò nome del medico, modalità e orari dell’estrema unzione e del decesso, rivoluzionando il già incerto scenario).
Nella sua cronaca Ranieri scrive di essere tornato col fidato dottor Niccolò Mannella. Stranamente però il certificato di morte del 14 giugno alle ventuno, che attesta “idropericardio” è a firma del medico e patriota Stefano Mollica, amico del Ranieri e vero medico curante di Giacomo, mentre nulla finora è stato possibile sapere circa identità e qualifica medica dell’ “assiduo” dottor Mannella (le cui ricerche d’archivio hanno dato risultati inconcludenti).
Giacomo – come scrive Ranieri – spirò quasi subito, giusto mentre stava entrando nella camera frate Felice (da Cerignola) agostiniano, che non poté che “prestare l’ultime preci de’ morti”. Nel Sodalizio si menziona un certificato di morte di quel frate, ma non v’è traccia di tale certificazione.
Anche il nome del frate però non quadra, perché in seguito – nel silenzio del Ranieri – vengono fuori altri nomi di sacerdoti, come quel tale padre Francesco Scarpa che “lo confessò, gli fè prendere i SS, Sacramenti e lo assistè fino all’ultimo”.
Sulla sua conversione si scatenò una guerra furibonda tra fronti contrapposti.
Il Ranieri, contraddicendo il testo del “Sodalizio”, in una lettera rassicura Monaldo, che il figlio “fu munito e antecedentemente e all’ora stessa de’ più dolci conforti della nostra santa religione” per cui “rese il nobile e santo spirito a Dio tra le mie braccia”; fa poi circolare questa versione definendo Giacomo “cristianissimo” (il che cozza con la problematica parola “Dei” nel finale de “Il tramonto della luna”).
I contrasti sulla presunta conversione si mischiarono alle opposte versioni sulla sepoltura.
Nel rincorrersi vertiginoso delle versioni, Gioacchino Taglialatela, un padre filippino, nel 1908 pubblicava un libro in cui sosteneva che il funerale fu una messa in scena e che nella cassa vi erano solo gli abiti usati di Giacomo, mentre il corpo era stato portato al cimitero dei colerosi. Ne seguirono polemiche roventi che gli procurarono “addirittura minacce armate”.
La sua tesi attende di essere scientificamente verificata.
LA SCOPERTA SCONVOLGENTE ALL’APERTURA DELLA TOMBA
La cassa con il corpo di Giacomo era stata portata dai fratelli Giuseppe e Lucio Ranieri e collocata sotto l’altare di destra della chiesa San Vitale di Fuorigrotta. Nel 1844 Antonio disse di aver trasportato la cassa a braccia (da solo?) per farla murare nel vestibolo della chiesa e in tale occasione disse di averla aperta per “contemplare per due ore lo scheletro dell’uomo” che più amò ed ammirò. Quindi per lui la cassa e lo scheletro si presentavano ancora integri.
Ranieri scrisse a Monaldo di aver vestito Giacomo con abiti nuovi, aggiungendo il vecchio soprabito verde a lui caro e quindi di averlo chiuso in una “splendida cassa ” di legno pregiato con ornamenti dorati e il nome del poeta, trasportata fino alla “chiesa di San Vitale, fuori l’antica Grotta detta di Pozzuoli, ” con l’intenzione di alzargli un monumento e far riposare le sue ossa accanto a quelle di Virgilio.
Il 21 luglio del 1900 non erano trascorsi neppure diciotto anni dalla scomparsa di Antonio Ranieri (morto nel settembre 1882). Alla presenza di molte autorità (incluso il ministro Mariotti) e di emeriti specialisti, venne effettuata l’apertura della tomba (già monumento nazionale) e la ricognizione delle spoglie.
La cassa era lunga un metro e quarantatre centimetri (mentre Giacomo a detta di Ranieri aveva “statura mediocre” e nei passaporti risultava di “statura giusta”); l’altezza delle pareti della cassa non appariva idonea per un cadavere a “doppia gibbosità”; secondo il verbale “la parte superiore e la parti laterali erano rotte in molti pezzi e talmente che coprivano gli avanzi di Giacomo….”.
Ma lo shock avvenne quando si vide che mancava il cranio. Tra i vari frammenti ossei si riuscì a isolare tutto il femore sinistro,che in confronto della lunghezza della cassa risultava alquanto lungo… Per il resto, solo un insieme indistinto di “polvere e scaglie leggere, brunicce, miste a dei frammenti di legno”.
Vi erano poi degli “avanzi del soprabito di color verde cupo e del gilet di color rosso marrone” (senza ombra degli abiti nuovi di cui parlò Ranieri); e inoltre “la suola quasi completa della scarpa destra e un frammento di tacco”.
La traslazione della salma di Leopardi accanto alla tomba di Virgilio avvenne nel febbraio del 1939.
Il monumento al parco Vergiliano resta in ogni caso un tributo simbolico alla sua memoria e il segno tangibile del suo legame con Napoli. Ovunque siano finiti i suoi resti mortali, è certa l’appartenenza di Giacomo all’eroica stirpe dell’imperituro “fiore del deserto”.
Il suo ultimo “tramonto della luna” coincide con la fine della stagione della “giovinezza”: la parola finale (un desiderio o forse un presagio?) è emblematicamente “sepoltura”
Ma proprio la parola “sepoltura”, così definitiva e tombale, ha generato paradossalmente una ridda di inquietanti possibilità alternative …Giacomo quella sepoltura la ebbe mai davvero?. Ebbene questo tassello di verità dentro il puzzle della sua fine, se lo si vorrà, è possibile riesumarlo.
UNA VIA D’USCITA DAL LABIRINTO
Antonio Ranieri definisce la sua biografia un “grido di dolore e di rivendicazione della verità”. Proclama di aver speso una fortuna per assistere l’amico fino alla morte e di averne salvato il cadavere “dall’infando cimitero cholerico dove, grandissimi e piccolissimi, morti, o non, di cholera erano tutti…gittati, con sopra un alto strato di calce viva, ed un lastricato di pietra vesuviana”
Troppe cose non quadrano.
La studiosa leopardiana Loretta Marcon (che produce nel suo prezioso libro “Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi” una ricchissima rassegna di documenti fondamentali per la ricostruzione del caso) smonta in più punti le affermazioni di Ranieri, arrivando anche ad osservare che l’iniezione trachiniana (con arsenico) fattagli dall’imbalsamatore avrebbe quantomeno dovuto garantire una pur minima conservazione del corpo andato in polvere. Sostiene inoltre – provandone la frequentazione – che il Ranieri, appassionato di anatomia era solito seguire le autopsie all’Ospedale degli Incurabili e ipotizza che in quella sede abbia potuto facilmente impadronirsi di resti di cadaveri per la sua messinscena.
Ma l’opinione che la versione del Ranieri fosse “una mentita favola” circolava fin dall’inizio.
Perché Ranieri avrebbe mentito? Forse per non confessare alla famiglia che Giacomo era finito nella fossa comune? Sostenendo con la famiglia Leopardi pure l’avvenuta conversione per renderla più ben disposta nei suoi confronti? O forse per allontanare da se stesso e dalla propria famiglia l’onta del “colera in casa”…O magari per altre non spiegabili ragioni?
Il problema primario è quello di accertare se Giacomo fu mai in quella cassa, ma anche quello di non caricare una croce dal “peso storico” addosso al Ranieri, sotto forma di sospetti e maldicenze, tramandati ai posteri.
IN CONCLUSIONE
E’ curioso che fino ad oggi non si sia pensato ad una soluzione elementare: l’accertamento è’ possibile farlo semplicemente tramite DNA. Sono molto avanzati ormai i protocolli e le tecniche per estrarre DNA dalle ossa e perfino da frammenti e cumuli sparsi di ossa fossili. Se ne è parlato nel caso di reperti molto antichi (in arte, ad esempio, per identificare la Gioconda, ma anche per la Sindone, tuttavia in quei casi non esiste campione di controllo “certo” per l’identificazione scientifica dei soggetti). Nel caso di Giacomo Leopardi, la cosa sarebbe scientificamente fattibile (sia sul femore, parte che dà i migliori risultati, sia sui frammenti), dato che non sono trascorsi due secoli e che esiste la possibilità di confrontarlo con la parentela certa dei discendenti..
La ricerca della verità, anche storica, esige che vengano chiariti gli aspetti ancora oscuri della morte dell’uomo e del poeta, ma nel caso del DNA trattasi di questioni molto delicate, che toccano a monte libertà di scelta e sensibilità personali su cui non è dato operare forzature. Tuttavia in questo caso “il filo d’Arianna” è un segmento genetico a doppia elica.
Se si trova il DNA di Giacomo, il resoconto del Ranieri riceve una conferma altamente significativa, quantomeno per questa parte fondamentale della storia.
Se non c’è il suo DNA, è evidente che in quella cassa Giacomo non c’è mai stato. E allora tutte le ricostruzioni operate, davanti a questa certezza, sono destinate ad essere fagocitate dentro un abissale buco nero.
Postilla Il testo integrale della ricostruzione verrà messo on line entro l’estate sul sito www.carlaglori.com