Non è stata la “tempesta perfetta”, quella che porta diritto alla “crisi di sistema”. La maggior parte delle banche italiane è solida e può ancora reggere alle spallate della speculazione. Ma quello che è successo anche ieri a Piazza Affari è molto più di un campanello di allarme. Dietro lo scivolone degli istituti di credito ci sono, infatti, tre elementi che pesano come un macigno sui conti dei nostri banchieri.
La mina delle sofferenze. Prima di tutto, la grande partita dei crediti in sofferenza. Le ultime stime registrano la cifra monstre di 200 miliardi di euro. Ma, considerando tutte le tipologie dei crediti a rischio, la somma potrebbe lievitare fino ai 350 miliardi di euro. Una situazione che ha due conseguenze negative: costringe le banche a stringere i rubinetti del credito (frenando la ripresa) e le indebolisce, fortemente, rispetto ai diretti competitor internazionali.
Il confronto europeo. Un numero per tutti: nell’eurozona il rapporto fra prestiti e sofferenze è fermo al 7,5%. In Italia, i colossi come Intesa e Unicredit viaggiano ad una percentuale pressoché doppia. Fino ad arrivare al record del 32,9% del Monte dei Paschi di Siena. Solo per avere un metro di paragone, la più grande banca del vecchio continente, Bnp Paribas, ha sofferenze pari al 4,5% dei crediti. Mentre, in Germania, Deutsche Bank arriva a malapena all’1,8%. Insomma, non c’è partita. E la situazione potrebbe addirittura peggiorare considerando la situazione dell’economia reale e le previsioni del nostro Pil, riviste ancora una volta al ribasso.
Lo spettro del “Bail In”. Ad impensierire gli investitori anche le nuove norme entrate in vigore a gennaio e che di fatto scaricheranno su azionisti e correntisti più ricchi gli eventuali problemi degli istituti. Ne hanno già fatto la triste esperienza i correntisti che hanno acquistato obbligazioni delle quattro banche “fallite” (Banca Marche, Etruria, Carife e Carichieti) e che rischiano di vedere andare in fumo i loro risparmi. Ora, con le nuove regole, questi titoli diventeranno sicuramente meno solidi e, quindi, quando andranno a scadenza, saranno rinnovati a tassi più alti. Con un ulteriore aggravio sui bilanci delle banche.
Una montagna di titoli pubblici. Ma non basta. Nella pancia dei nostri istituti di credito c’è poi una grandissima quantità di titoli del debito pubblico italiano, fra i 450 e i 500 miliardi di euro. Naturalmente, si tratta di una dote relativamente sicura, la situazione italiana non è più comparabile a quella della Grecia. Ma, rispetto ai Bond tedeschi, sicuramente i nostri Btp sono meno solidi e, in prospettiva, meno sicuri. Non a caso è stato proprio questo uno degli argomenti spesi dalla Germania per bocciare l’ipotesi di una assicurazione europea sui depositi bancari.
La beffa degli aiuti di Stato. Che cosa fare per evitare il peggio? Al ministero dell’Economia non hanno dubbi: occorre un intervento pubblico. L’idea di base, quella di una “bad bank” nazionale, è stata già stata bocciata da Bruxelles. Per questo si sta ragionando sull’ipotesi di costituire tante società controllate dai rispettivi istituti di credito (con garanzia dello Stato) ai quali trasferire i crediti in sofferenza. Ma la partita è tutt’altro che semplice. Se fino a qualche anno fa, nel pieno della crisi economica, i nostri banchieri hanno sempre rifiutato, con un pizzico di orgoglio, l’aiuto dello Stato, ora la situazione si è letteralmente invertita. Solo che, allora, tedeschi, francesi e spagnoli hanno potuto ricapitalizzare le banche a spese dei contribuenti, anche di quelli europei. Ora, la stessa operazione, sarebbe considerata un aiuto di Stato e quindi vietata. Una vera e propria beffa.