“... Anna Maria Ortese attraversa l’Ade posando sulle cose e le figure degli sguardi allucinati e dolcissimi: tremendi a forza di essere dolci; che colgono e uccidono per sempre il brulichio della vita”.
Questo brano di Pietro Citati ci introduce nei mondi inferi de “Il mare non bagna Napoli” , un libro che valse alla Ortese – donna e autrice controversa, il cui legame con la città si sostanziò di legami biografici e ancor più di profonde implicazioni autobiografiche - violente critiche e opposizioni, al punto da gettarla in una crisi che la accompagnò per tutta la vita. Quel libro, pubblicato nei Gettoni” dell’ Einaudi nel 1953 con una presentazione di Elio Vittorini, segnerà anche l’inizio di una stagione molto sofferta d’emarginazione a causa delle posizioni critiche ivi espresse nei confronti del mondo intellettuale e culturale dell'Italia dell'epoca.
ANTINAPOLETANITA’ COME AMORE, NEVROSI E SPAESAMENTO
La raccolta – che consta di cinque racconti, tra cui il lungo e conclusivo “Il silenzio della ragione” - ad una prima lettura, può essere intesa come una discesa nelle viscere della Napoli del dopoguerra, devastata da miseria, disperazione e rovine; l’autrice, con sguardo critico e a tratti spietato, e con una scrittura febbrile e insieme rigorosa, epurata da quella retorica che ancora oggi contamina gran parte degli interventi “artistici e non” su Napoli e i suoi abitanti, pone in luce la meschinità non solo economica, ma soprattutto morale della plebe urbana e l’indifferenza della classe borghese dominante verso i problemi della città e delle classi popolari, oppresse e ricacciate nella miseria. Anna Maria per “Il mare…” fu marchiata dal giudizio di antinapoletanità da parte di molti intellettuali, che vollero vedervi un disegno finalizzato a denigrare Napoli in ogni suo aspetto. Fino alla fine lei sostenne il nucleo sfuggente di ragione che percepiva – senza padroneggiarlo – alla base di quel libro, e nell’edizione Adelphi del 1994 tenta di darne – e darsene – una spiegazione in due note, una introduttiva e l’altra in appendice. In entrambe imputa alla “intollerabilità del reale….per me incomprensibile e allucinante” sia la sua “irritazione” nel raccontare uomini e cose che il suo “rifiuto” a fronte della “cosiddetta realtà: il meccanismo delle cose che sorgono nel tempo, e dal tempo sono distrutte”.
“Come un imbuto viscido il cortile, con la punta verso il cielo e i muri lebbrosi fitti di miserabili balconi; gli archi dei terranei, neri, coi lumi brillanti a cerchio intorno all’Addolorata; il selciato bianco di acqua saponata, le foglie di cavolo, i pezzi di carta, i rifiuti, e, in mezzo al cortile, quel gruppo di quei cristiani cenciosi e deformi, coi visi butterati dalla miseria e dalla rassegnazione, che la guardavano amorosamente’”. E’ così che la bambina semicieca “vede” la città per la prima volta, quando mette gli occhiali. La visione reale della vita miserabile dei vicoli nella Napoli del dopoguerra infrange la sua interiore visione del mondo …..Il racconto si chiude sulla bambina che “ piegata in due .., lamentandosi, vomitava”.
Eppure non sono passati che tre anni dal precedente libro di racconti L'Infanta sepolta, pubblicato nel 1950, dove la sua visione di Napoli è ammantata di magia e incanto, nello splendore della memoria della sua giovinezza :“ Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, (...) tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, (...) tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva (...) una impressione stranissima, come di una orchestra i cui istrumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di meravigliosa confusione... “
La Napoli di cui scriveva pochi anni prima, al lettore de “Il mare…” appare ormai lontana anni luce. Non si riesce a credere che si tratti della medesima città, vista dagli stessi occhi. La Napoli magica de “L’infanta sepolta” ora trapassa nella realtà, nell’orrore della consumazione del tempo che divora e annienta ogni cosa, sprofondata nei ghetti della storia. Napoli nella premessa dell’autrice, a quarant’anni dalla prima pubblicazione, è - nella sua “nevrosi” – quella “visione dell’intollerabile” che lei rifiuta, ma è anche il dolore e il male veri della città uscita in pezzi dalla guerra. Anna Maria vi specchia il suo sogno infranto, e la sua mente non finirà mai di ricordarla, in un legame che si alimenta di desiderio ed estraneazione, come testimonieranno due libri scritti alcuni decenni più tardi: II porto di Toledo (1975) e II Cardillo addolorato (1993). Nell’opera più sofferta – Il porto di Toledo pubblicato nel 1975 da Rizzoli - la Ortese riannoda il legame con la “sua” città: la situazione postbellica degradata si fonde con le vicende tragiche della famiglia, con le sofferenze più intime per la madre impazzita e la tragica morte dei fratelli. In quel libro l’autrice evoca la sua Napoli perduta e dà vita a una delle più grandi opere del Novecento, ricavandone una sconfitta bruciante per la cecità della critica letteraria dell’epoca.
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A NAPOLI: DA VIA PILIERO n. 29 ALLA CASA DEGLI SFOLLATI E AL “BASSO” DI VIA PALASCIANO ALLA RIVIERA (DI CHIAIA) n.47
La napoletanità è una componente del DNA artistico della Ortese, per via del filo mitocondriale materno: sua madre, Beatrice Vaccà, era originaria di Napoli e lei vivrà il suo legame ombelicale con la città nel segno dell’ambivalenza e dello sradicamento. La famiglia era numerosa: Anna Maria aveva una sorella e cinque fratelli. Nel 1915 il padre venne richiamato al fronte e la madre, i figli e la nonna materna, lasciata la capitale, si trasferirono in Campania, a Portici. Terminata la guerra, tra il 1919 e il 1924 la famiglia si trasferì a Potenza. Seguì un triennio in Libia e quindi nel 1928 il ritorno a Napoli. La famiglia andò ad abitare in via Piliero al numero 29, l'attuale via Cristoforo Colombo, a ridosso dell'Immacolatella Vecchia affacciata sul mare e sui cancelli del porto (il luogo d'imbarco degli emigranti italiani che andavano in America) e della chiesa barocca di Portosalvo Evento cruciale di quel periodo fu la morte del fratello Emanuele Carlo, detto Rassa, di professione marinaio, avvenuta il 6 gennaio 1933 al largo della Martinica, cadendo dalla nave mentre imbrigliava le vele. Nel 1937 la colpisce un altro lutto: il fratello gemello di Anna Maria, Antonio, muore sul fronte albanese, pugnalato in circostanze non chiarite dal suo attendente. Per un breve periodo gli Ortese andranno anche a vivere a Posillipo per poi tornare nella vecchia casa che affaccia sui moli.
A far data dal 1938 la Ortese iniziò a spostarsi da Napoli e a frequentare il Nord Italia. Firenze, Trieste, Venezia furono le tappe salienti. La pubblicistica divenne di lì in poi fonte di sostentamento e al pezzo di carattere narrativo iniziò ad accompagnare l’elzeviro e il giornalismo di cronaca. Nel giugno del 1945 rientrò nuovamente a Napoli, con i genitori e la sorella Maria. La casa del Pilar, gravemente danneggiata, venne di lì a poco demolita e gli Ortese - dapprima ospitati in un edificio per sfollati simile a quello tristemente celebre del III e IV Granili (v. La città involontaria, in Il mare non bagna Napoli) – nel 1946 si trasferirono nel misero ‘basso’ di via Palasciano alla Riviera (di Chiaia) n. 47, dove fu ambientato Un paio di occhiali, il racconto in apertura de Il mare non bagna Napoli. La Ortese iniziò una collaborazione più regolare a quotidiani e periodici, soprattutto napoletani (La Voce, Risorgimento, Sud), ai quali consegnò prose d’inchiesta e di reportage. In particolare Sud - rivista fondata e diretta da Pasquale Prunas fra il novembre 1945 e il settembre 1947 e importante polo di aggregazione degli intellettuali progressisti di origine o adozione partenopea - costituì per lei un’occasione di sviluppo culturale e politico e un punto di riferimento relazionale e affettivo. E’ la sua esperienza in Sud che l’autrice fissa sulle pagine de Il silenzio della ragione, in Il mare non bagna Napoli, e gli strascichi delle polemiche che ne seguirono l’accompagneranno fino ai suoi ultimi anni, così come la reazione ostile degli amici, che non le perdonarono mai quelle parole che avevano messo spietatamente a nudo le loro contraddizioni.
DOPO “IL MARE…”, ESILIATA E MESSA AL BANDO PER QUARANT’ANNI
L’autrice nella prefazione all’edizione Adelphi del 1994 torna a parlare di Napoli: “ Rivederla e compiangerla non bastava. Qualcuno aveva scritto che questa Napoli rifletteva una lacera condizione universale. Ero d’accordo, ma non sull’accettazione (implicita) di questo male. E se all’origine di tale lacera condizione, vi era appunto la infinita cecità del vivere, ebbene era questo vivere, e la sua oscura sostanza, che io chiamavo in causa.” La sua premessa all’edizione Adelphi è una confessione impietosa e mai liberante: “Questa condanna mi costò un addio, che si fece del tutto definitivo… alla mia città”. Proseguendo si domanda “ Se il ‘Mare…’ è stato davvero un libro ‘contro’ Napoli e dove ho sbagliato, se ho sbagliato, nello scriverlo, e in che modo, oggi, andrebbe letto…”. Questi interrogativi sono la prova di quanto quel libro – come una spina nel cuore - continui a tormentarla dopo un quarantennio, intrappolandola nel dedalo delle sue pagine. Anna Maria prosegue interpretando la “nevrosi” di cui era imbevuta la sua scrittura in chiave “metafisica, non senza una stoccata ai “politici che furono, direi, i miei soli critici e contestatori”.
Il richiamo ai politici riguarda appunto il “Il silenzio della ragione”, il testo temerario che la Ortese non finirà di scontare. In questa inchiesta sui generis sugli intellettuali partenopei, l'intellighenzia napoletana progressista del tempo veniva dipinta in tratti impietosi nei suoi conformismi e nelle sue sterili velleità. Come non bastasse, Anna Maria vi addita gli amici (su insistenza di Elio Vittorini, il quale sosteneva che la scrittrice “poteva darci un libro napoletano, che mordesse più a fondo anche dell’impeto dei migliori critici meridionali”): “il pingue e delicato Prisco, ragazzo perfettamente educato, l’inquieto La Capria, il chiassoso e pallido Rea, gli scrittori comunisti Incoronato e Pratolini, dagli sguardi freddi e immaturi…” e, ancora, Prunas e Compagnone e via dicendo… Nel 1994 lo scrittore Erri De Luca, che all’uscita di quel libro era bambino stronca la nuova edizione de “Il mare non bagna Napoli”. Mentre La Repubblica titolava “ Ortese spacca Napoli” e il Corriere della Sera , “La Ortese spiò nelle nostre case”. Gli attacchi più dirompenti all’autrice venivano fin dall’uscita del libro dagli intellettuali della sinistra. Sulle pagine di Rinascita, la Ortese veniva accusata di adottare la tipica «espressione di uno stato d'animo fascista» e di prestarsi alla strumentalizzazione di quei settori della società e della politica nazionale che avevano «interesse al perdurare di una società così avvilente».
Le stroncature avevano omesso di porre in conto la “nevrosi” poi confessata dalla stessa autrice. Sia che si trattasse di nevrosi o no, la Ortese fu sempre profondamente avversa ad ogni consorteria culturale e ogni apparato di potere, e per questo si autocondannò a un ruolo di assoluta marginalità rispetto alle conventicole e ai salotti della società letteraria italiana, accampando la sua rinuncia a legarsi a un qualche partito, sia politico che letterario, ponendo in primis la propria libertà e perseguendola con una ostinazione che sfiorava l’autolesionismo. Per altro verso nei giudizi si era omesso pure di prendere in considerazione che la Ortese covava in embrione nel suo animo la denuncia del fallimento dell'impegno ideologico che aveva animato le speranze e le utopie generazionali all'indomani della seconda guerra mondiale. Ampliando la prospettiva, il suo “antimeridionalismo” assume allora il senso diverso di una visione critica e tagliente, insieme impietosamente estraniata e masochisticamente spietata, sulla Napoli del dopoguerra.
IL PENSIERO NEGATIVO DELLA ORTESE: IL RIBALTAMENTO DEL PROGRESSO
Inaspettatamente si può cogliere nel lavoro letterario della Ortese l’eco inconsapevole e soggettiva del pensiero negativo che aveva trovato nella “Dialettica dell’illuminismo” dei Francofortesi (scritta tra il 1942/44, pubblicata ad Amsterdam nel ’47 ma conosciuta solo negli anni ’60) una elaborazione filosofica raffinata e criticamente proiettata nella nostra contemporaneità. Le analogie si concentrano sulla sua intuizione del processo di ribaltamento del progresso culturale moderno e contemporaneo nel suo esatto contrario (cioè in un vero e proprio regresso). In particolare, anche per lei, è la stessa ragione illuministica a subire storicamente un vero e proprio rovesciamento, da cui principalmente dipende la trasformazione del progresso in regresso. Il parallelo è alquanto indiretto e mediato, poiché per l’autrice entrano in campo soprattutto sensibilità, rifiuti emotivi, angosce, proiezioni visionarie…insomma quegli aspetti irrazionali che segnano in modo più o meno profetico l’opera dell’ artista. Anna Maria coglieva nel “secolo dei lumi” e nell’inarrestabile predominio dell’intelligenza scientifica alla base della modernizzazione, nonché nel predominio dell’economia, il braccio secolare che aveva stritolato quei valori e dimensioni spirituali che, nel bene e nel male, avevano alimentato il “sogno antropologico”, sia nella sfera primigenia e spontanea dell’immaginario dei popoli che in quella separata della cultura “alta”.
Come scriveva a proposito de Il Monaciello di Napoli, (uscito quando aveva 25 anni sulla rivista “Ateneo Veneto”, 1940), l'inizio della disgregazione dei riferimenti simbolici che sostenevano l'identità individuale e collettiva aveva coinciso con «l'ingresso nella nostra cultura del pensiero francese» e con i connessi «progressi della scienza che mirava con un impetuoso colpevole entusiasmo a demolire la credenza nell'irreale che era tanta parte della nostra vita». A smentire ogni tentato accostamento della scrittrice sia all’ideologia fascista, in quegli anni fautrice di una accelerata “modernizzazione” imposta dall’alto, sia a quella borghese capitalistica, sta il suo rigetto della civiltà industriale portatrice di una dittatura dell'economico che – distrutta la civiltà contadina a lei cara -andava generando una vera e propria ”religione della crescita”. Il capitalismo è filtrato dalla visione della Ortese come manifestazione storica di quel darwinismo sociale che fomenta competizioni fratricide e distrugge i deboli e gli indifesi figli della Terra. Analogamente, mal si concilia il suo pensiero con il materialismo storico e l’ideologia marxista, di cui vede le implicazioni liberticide e totalitarie, riconoscendovi lo spettro della massificazione che costringe gli uomini a vivere nel chiuso omologante di «un grande crepuscolo”. D’altra parte la parabola della sua adesione al comunismo, avvenuta nel 1945, terminerà nel 1954, dopo un problematico viaggio in Russia, che la Ortese compì con una delegazione dell’UDI composta di 15 donne di diversa professione. Il contrasto con queste donne, assieme alla cattiva accoglienza riservata ai reportage pubblicati, oltre che in Noi donne e su l’Unità, anche su L’Europeo, determinerà la sua uscita dal Partito comunista italiano.
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IL MARE NON BAGNA NAPOLI E TANTOMENO MILANO
«Non ho avuto nessuna gioia a Milano. È una città austriaca, dura, crudele. Ho sofferto la miseria più nera. Ero sola. Poi sono uscita dal partito perché volevano che io non ragionassi con la mia testa ma con la loro»:
Negli scritti della fine degli anni Cinquanta, raccolti nel 1958 nel volume edito da Laterza, “Silenzio a Milano”, la Ortese descrive i meccanismi della fabbrica che hanno indotto nei cittadini della capitale del miracolo economico italiano una sorta di “mutazione antropologica”. Nella macchina fordistica gli individui divengono fantasmi spersonalizzati, atomi e numeri di una città che, secondo l’autrice, ha venduto l’anima alle sirene e ai demoni della produttività e del progresso a qualsiasi costo. Anche questa realtà milanese si para ai suoi occhi con la stessa radicale negatività di quella napoletana di un quinquennio prima, generando in lei, per altro verso, la medesima “visione dell’intollerabile”, esacerbando la sua confessata “nevrosi” patita con dolore e rabbia. Lo stesso “spaesamento” vissuto a fronte della Napoli della sua infanzia e giovinezza degradata nel periodo postbellico si ripeteva ora, nella Milano reale che si presentava ai suoi occhi di immigrata: “una città dove ogni cosa era in vendita, tutto aveva un cartellino, e per la famosa contemplazione o definizione del mondo (arte, scrittura) non vi era più speranza”.
Fatto sta che la Ortese non vede alternative storiche praticabili. La “cultura” dell’uomo “occidentale” è diventata cultura del numero e mero utilitarismo.”Sotto l'utile e il proclama di tutti i miglioramenti, domina e lavora un solo Signore: il Massacro. Tutta la Natura è fatta a pezzi, e venduta, mentre noi sogniamo la Felicità universale, e la Terra, sotto i nostri piedi, scricchiola”. L’ intransigenza assoluta del suo rifiuto e l’estraneità alle logiche socioeconomiche e culturali del presente, spingono la Ortese al rimpianto per una dimensione perduta. Pare di cogliere come un’ eco pasoliniana nella nostalgia di una società preborghese e contadina.... Per le plebi oppresse napoletane, così come per gli anonimi abitatori della metropoli industriale milanese e delle periferie romane squallide e abbandonate (in cui la scrittrice personalmente aveva sperimentato la fame) il lascito de “Il mare non bagna Napoli” infine si equivale, in quanto portatore del medesimo retaggio di rifiuto, dolore, provocazione e verità.