Donna Marianna, alias “A capa e Napule”, la parola stessa lo dice, è una intellettuale di ragguardevole calibro ed una inguaribile polemista.
In una “puntata” precedente, la prima con cui ha avviato la sua collaborazione con www.ilsudonline.it, ci ha aiutato a capire tante cose del rapporto tra i napoletani e Maradona, il sacro e il profano, realtà e finzione di una città multi facciale. Oggi spinge la riflessione fino alla radice della dicotomia tra classi egemoni e ceti subalterni della città, borghesi e lazzari, che fa di Napoli una città con due classi ma senza popolo. La riflessione poggia su Domenico Rea, autore di un indimenticato saggio intitolato “Le due Napoli”, che qui viene preso a cardine del ragionamento.
Donna Marianna, borghesi e lazzari a Napoli hanno sempre convissuto nello spazio di una urbanità piuttosto esigua, se la consideriamo al di qua delle mura cittadine. Lo spazio a Napoli è infatti una conquista recente, se per Napoli si intende una galattica periferia che ormai fa tutt’uno con la città. E’ d’accordo con questa interpretazione?
Sostanzialmente sì, perché è noto che Napoli è in un fazzoletto di pochi chilometri quadrati per secoli. Fino alla nascita di una cintura periferica, fatta di mille casali diventati municipi, che si è saldata con la città storica sena soluzione di continuità. Ciò ha indotto a parlare di una “grande Napoli” come agglomerato ampio, una sorta di metacittà di fatto che raccoglie oltre la metà degli abitanti della Campania. La si chiama anche Grande Napoli, ahimè, ma tale solo nel senso dell’estensione geografica che va da Pozzuoli a Torre del Greco, dalle pendici del Vesuvio alla piana del Voltturno.
Nella città storica Spaccanapoli è la strada che rappresentauna sort di lunga incisione nella carne viva di Napoli. La più efficace rappresentazione di due mondi incomunicabili: borghesi a ovest, lazzari a est di via Toledo. Non è così?
Non del tutto. Non nego che la separatezza non sia fisicamente incarnata da Spaccanapoli, la strada che allunga il decumano della città anticaagganciando le falde Vomero fino alla spianata orientale, le propaggini della Stazione Centrale, oltre la Duchesca. Ad Ovest e ad Est di questa strada, che taglia longitudinalmente via Toledo, si dice ci siano due popoli e due Napoli. Ma si tratta delle stesse classi che hanno convissuto come separati in casa anche dentro la città antica, uno sull’altro, per secoli. I lazzari nei bassi e nei “soppigni”, cioè i sottotetti o le stanze ricavate sui lastrici dei palazzi, i borghesi al piano nobile.
Due popoli e due Napoli. Fra loro in che rapporto sono?
Lo dico con le parole di Domenico Rea, l’autore di “Gesù, fate luce!”, di “Diario napoletano”, da ultimo di “Ninfa plebea” e, guarda la combinazione, anche di “Spaccanapoli”.Rea è tra i conoscitori più profondi dei “mali” della città, il principale dei quali è l’inclinazione dei suoi cittadini ad avvitarsi senza rimedio sui profili da macchiettistica da folklore locale.
Che cosa pensava Rea dei napoletani? Quali furono le sue critiche principali ai suoi concittadini?
Dice che è un popolo id maschere. Fatto di persone che han finito per credere di essere simili ai personaggi cantati, narrati e rappresentati dai loro scrittori. Così fino alla totale distorsione del teatro a dominane cabarettistica. Non solo i napoletani fanno ridere, ma essi sorridono del fatto che di loro si pensi che fanno ridere. Amano ritrovarsi nelle canzonette, dice Rea. E Oggi peggio: nei personaggi di Vincenzo Salemme e di Made in Sud.Che disgrazia.
Due Napoli, scrive Rea. Fra di loro in quale rapporto sono?
Tra le due Napoli c’è la medesima differenza che corre tra un oggetto fotografato e l’oggetto in sé. Rea afferma che nella fotografia anche le macchie possono diventare piacevoli. Anche i particolari più sinistri possono acquistarefascino.E il fascino porta a una deviazione della verità. Per tale via anche i cenci al sole possono sembrare bandiere di napoletanità.
I napoletani secondo Rea non li prende mai sul serio nessuno
Basta sapere che Tizio o Caio, dice Rea, sia napoletano perché si abbia gusto di ascoltarlo o lo si inviti a cantare una canzone. E lui parla e canta, per non deludere. Ma quando ha finito di parlare e di cantare…
Che cosa succede?
Beh, gli si dice: Caro napoletano, ora ho da fare, con la tua spensieratezza non si mangia. E il napoletano resta solo, con la sua miseria…
Da de Sade a Oscar Wilde, da Ceronetti ad Arbasino, sono molti gli intellettuali che parlano dei napoletani come di un popolo sporco, dedito all’ozio, alla prostituzione, che vive in una realtà degradata, insopportabile. Eì il motivo per cui, al giorno d’oggi, si invoca il fuoco del Vesuvio come detergente.
Rea si chiedeva – ma la domanda è retorica – come sia stato possibile che un popolo corrotto da quando se ne ha memoria, sia tuttavia ancora tanto vivo. Come faccia a rimanere, anzi, nella piena capacità d’insegnare qualcosa agli uomini, di dare a loro, se non altro, uno spettacolo che gli stranieri chiamano vita piena.E ancora: come può un popolo tanto disposto al farsesco giungere a certi suoi grandi giorni, a Masaniello, al netto rifiuto dell’Inquisizione. Alla Repubblica del 1799 e ai moti del 1820.
Possibile che tra tanti artisti che hanno incontrato e attraversato Napoli non ce ne sia uno capace di giungere alla plastica verità di Napoli e della sua gente?
Dovremmo riaprire – è ancora Rea che parla – l’Andreuccio da Perugia del Boccaccio. Il Boccaccio ha scritto il più realistico racconto napoletano, di un’attualità sconcertante. Il Boccaccio è uno dei pochissimi scrittori che abbia visto nei napoletani degli uomini concreti, positivi e abbastanza cattivi, preferibili agli uomini-pulcinella o agli uomini-macchiette. Uno scrittore fermo e sano come Boccaccio dovrebbe lavorare a una rappresentazione artistica del nostro mondo.
Per arrivare a che cosa?
Rendere nella sua crudezza spietata che cosa è un “basso”, quest’eterno basso di cui si parla sempre e di cui non si sa quasi nulla, questo basso in cui nessuno, nessuno oserebbe dormire per ribrezzo e schifo della carne e mortificazione dello spirito e nel quale non hanno in verità né dormito, né mangiato scrittori, attori e compositori di canzoni…
Mentre invece cosa si dovrebbe fare per comprendere Napoli alla radice?
Un suggerimento Rea lo dà. Al cospetto di Napoli, non più dipingere, descrivere e cantare le creature umane dalle facce più stranema recuperarne lo spirito, le passioni nascoste, il mondo pre-alfabetico, intricato e complicato di cui si sa pochissimo.
Bisogna compiere un lavoro immane di spogliamento e sottrazione della napoletanità per ritrovare davvero, alla fine di tutto, Napoli e i napoletani?
Il j’accuse di Rea include la critica al fatto che, ovunque compaiano quattro righe su Napoli, prostituzione, furto, arrangiamento e compromesso divengano i punti di forza. Ma il sentimento tragico della vita, spogliato e nudo, che qui regna su tutto, come la violenza di vivere almeno una volta, perché una volta si vive, rimangono forze oscure.
La brama di vivere, che ossessiona questa gente al fondo pagana, oppressa dalla miseria, ha fatto sembrare il napoletano un uomo incontinente.Non è così?
Secondo Rea, il napoletano non insiste nel male, perché il suo ideale è un mondo semplice e buono che raramente riesce a realizzare. E’ un essere umano che nelle più violente furie conserva, più che un filo di ragione, un’illuminazione di bene.Anche la “minaccia” è stata ignorata dalla letteratura. Non si tratta sempre di una minaccia armata, ma animalesca, ritrovabile in quasi tutte le azioni dei plebei napoletani.
Può fare un esempio?
Lo fa Rea medesimo quando dice che “anche se due giovani fanno l’amore, essi sentono di svolgere una rappresentazione drammatica”. E aggiunge: Si prendono, si lasciano, si rimproverano a vicenda l’amore che li tiene legati, si violentano in una ricerca carnale inimitabile…
Eppure tante canzoni attestano lo spirito allegro e beffardo, l’inclinazione al gioco e allo sfottò…
Rea non sarebbe d’accordo. Persino nelle canzoni più spensierate, quando l’allegria dovrebbe esplodere, si sente una voce di sangue e di polvere; come quelle “voci di notte” che ti svegliano di soprassalto. Nelle “tavoliate” – le grandi mangiate – addirittura si è in attesa che qualche cosa di violento accada. E non c’è festa dove non si verifichi un mezzo fatto di sangue.
Che cosa rappresenta questa violenza?
E’il sentimento tragico della vita che esplode e che sta stampato sui volti. E aggiunge: si pensi alle nostre donne così lontane dalla bellezza arcadica digiacominiana. Donne grasse, affannate, arruffate, discinte, come uscite da una zuffa mortale, gli occhi vivi e adirati, le labbra frementi che non riescono a dire per intero le parole; con cui è impossibile l’amor gentile e impossibile non far figli, essendo nate madri, e questo è il loro volto, di “madri dell’Universo”, dove è scolpita la storia delle generazioni.
In definitiva, nel sostenere la separatezza delle “due” Napoli, topograficamentea cosa si allude?
La Napoli che si stende sul mare fino a Posillipo, conclude Rea, non è Napoli. Essa vive lontano dal “ventre”. Vi sta al di sopra e l’ignora. Le grandi arterie come Foria, il Rettifilo hanno alle spalle una massa incandescente di bassi con una convivenza sfacciata del povero e del ricco… E Capri che è a un tiro di schioppo, ma chi l’ha mai vista?