Così come il 1862 anche il 1863 si caratterizza all’insegna della repressione degli stati d’assedio e delle nuove tasse. L’anno finanziario si chiude con deficit di 446.000.000 che il Tesoro cercò di colmare ricorrendo al prestito forzoso, con nuove tasse e pesanti balzelli. Sembra l’Italia di oggi dell’era Monti-Napolitano. L’Italia prima del 1860 era il museo delle arti, ora è diventato il museo delle tasse. Dal 1860 al 1862, la Sicilia ha subito un’autentica “spremitura”, senza contraccambi per la Sicilia, anche attraverso i “contributi diretti”. Le quote individuali di contribuzione fiscale dell’erario passarono da 18 lire annuali al 4 aprile 1860, a 48 lire con il nuovo Regno, con un aumento del 166%”.
Giuseppe Marino descrive il 1862, un paradosso della libertà illiberale per la Sicilia. Sostiene che “dal 1862, la Sicilia era stata praticamente governata con lo stato d’assedio, col bell’effetto di un crescendo delinquenziale che a sua volta provocava un crescendo di interventi repressivi (…)Le pagine dei giornali ed opuscoli del tempo sono piene di denunce contro la crudeltà delle autorità governative e di polizia. Rispetto al passato borbonico, scriveva qualcuno, la libertà aveva marciato a ritroso”. (pag.94)
In questo periodo il generale Govone chiese e ottenne dal Governo centrale l’autorizzazione a mettere “ordine” in Sicilia, cominciò con Caltanissetta, accerchiandola. Tutti coloro che fossero stati incontrati nella campagna e nei paesi “dall’età apparente del renitente o col viso dell’assassino”, sarebbero stati arrestati. A Licata, il 15 agosto 1863, il maggiore Frigerio, comandante di un battaglione di fanteria, intimava alla popolazione che “se l’indomani alle ore 15 non si fossero costituiti i renitenti e i disertori, avrebbero tolto l’acqua, e ordinato che nessuno potesse uscire di casa sotto pena di fucilazione e di altre misure di più forte rigore”. Una ordinanza a dir poco barbara. Si sono verificati altri casi terribili in Sicilia in quell’anno come quello che è successo al sordomuto palermitano Antonino Cappello. Il poveretto ritenuto renitente alla leva, poiché si riteneva fingesse non parlando, furono inflitte 154 bruciature di ferro rovente in tutto il corpo. “Il suo aguzzino – scrive Romano – degno di un persecutore in un gulag o in un lager del XX secolo – fu il medico divisionale del Corpo Sanitario Militare Antonio Revelli, poi insignito dall’Ordine sabaudo dei santi Maurizio e Lazzaro”. (pag.99)
In poco più di un anno furono ben 154 i comuni circondati e posti in stato d’assedio e poi perquisiti, lo scrive Giancarlo Poidomani, su 20.000 renitenti, vennero arrestati 4.000. Il libro di Romano ne descrive alcuni, il 26 agosto quello di Salemi, ci pensa il 48° Reggimento Fanteria del maggiore Raiola, che cinse la città per tre giorni, chiudendo l’acqua potabile. “Si ricercano i renitenti e, in assenza, si arrestano madre, padre, sorelle, fratelli, che legati come malfattori o galeotti sono trascinati in carcere. Si arresta senza discernimento. Si arrestano i parenti sino nei più lontani gradi, gli amici e chi niente ha in comune col renitente ma che lo vide nascere”. (pag. 104). Le varie operazioni militari che miravano a controllare il territorio nelle province di Palermo, Trapani e Girgenti, portarono all’arresto dei facinorosi, dei disertori e renitenti, con eventuali rappresaglie sulle famiglie. Tra le tante disposizioni emanate, “si può leggere questa perla di ‘diritto’ – scrive Romano – ‘L’autorità politica ha prescritto che ogni cittadino assente dal proprio comune sia munito di una carta di circolazione. Tutti coloro che alla distanza di un chilometro dal paese ne saranno trovati sprovvisti verranno arrestati, né si rilasceranno prima che il Sindaco alla presenza del Delegato di Sicurezza Pubblica e del Comandante la stazione dei R. Carabinieri abbia assicurazioni sulla loro moralità”. (pag.115) Questa è la sublime libertà che i nuovi giacobini venuti dal Nord, hanno regalato ai siciliani che erano soggiogati dalla presunta tirannia borbonica.
Una dichiarazione di un insospettabile, Francesco Crispi, scrivendo a Garibaldi, dichiara: “Ho visitato le carceri e le ho trovato piene di individui che ignorano il motivo per cui sono prigionieri. La popolazione in massa detesta il governo d’Italia”.
L’VIII capitolo del libro, Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere, del professore Tommaso Romano, lo dedica all’insorgenza palermitana del “Sette e mezzo” nel 1866. Per Romano la rivolta palermitana del Sette e mezzo è sicuramente l’insorgenza popolare corale più importante del decennio 1860/70 che coinvolse e sconvolse la provincia di Palermo nel settembre 1866, con taluni focolai di manifesto dissenso antigovernativo in altre provincie della Sicilia occidentale. Il professore Romano ribadisce che in Sicilia come nel resto del Meridione, c’era in atto una strisciante guerra civile che non ha risparmiato quasi nessun centro, grande e piccolo dell’isola. Il nuovo potere non incontrò il consenso e l’entusiasmo popolare, anche se all’inizio seppur in modo non maggioritario, soprattutto i contadini avevano creduto in Garibaldi, considerandolo quasi un novello redentore, distributore di ricchezze a poco prezzo. “Gli eccidi fraterni fra le parti del processo rivoluzionario in Sicilia, e cioè i garibaldini e i governativi, fecero uscire molti dall’incantamento e prevalse così il realismo(…)”Alla fine oppositori, renitenti e disertori si unirono a fuorilegge che poco o nulla avevano in comune con questi e che tuttavia l’ansia per una supposta ‘giustizia’, orientava verso bande armate”.
Il brigantaggio siciliano fu un fenomeno complesso, quasi sempre liquidato come criminale e mafioso sic et simpliciter. A inizio di luglio del 1866, addirittura, si era formato un Comitato per l’insurrezione col fine di rimettere sul trono di Sicilia Francesco II, anche se per comodità strategica i suoi componenti si mimetizzavano spacciandosi per repubblicani. Per Romano, occorre tenere presente nello scenario che prepara il movimento insurrezionale del Sette e mezzo anche altri protagonisti come gli ex garibaldini, i mazziniani-repubblicani, radicali, intellettuali anarchici, socialisti, regionisti con componenti autonomiste e separatiste, mentre nel mondo cattolico, molti vescovi e buona parte del clero e degli Ordini religiosi intransigenti che seguivano l’insegnamento e gli ammonimenti controrivoluzionari del Papa Pio IX e del suo braccio dottrinale, la Civiltà Cattolica.
Tra le varie cause fondanti della rivolta del “Sette e Mezzo, secondo Romano vi fu certamente la legge Siccardi, famigerata per la soppressione degli Ordini religiosi, conventi, Confraternite, che applicata all’isola, ha provocato forte sdegno tra la popolazione. Infatti la legge del 7 luglio non faceva che favorire l’ascesa della nuova borghesia rapace per la vendita di beni ecclesiastici a prezzi irrisori, ma proibitivi per impiegati e contadini”. Alla prossima.
DOMENICO BONVEGNA