Il Barone di Giuseppe Antonio Martino è un piccolo capolavoro che vanta l’accuratezza della storia, dei personaggi, delle ambientazioni e la scorrevolezza e la fluidità della narrazione, tutti elementi che devono essere contenuti in un romanzo storico che sia di forte tenuta letteraria.
Così mi piace iniziare la recensione di questo romanzo perché è quel che ho colto nell’immediatezza della lettura, impressione poi suffragata e confermata da un’analisi più attenta e meditata. Si tratta di un romanzo che è densamente imbevuto di storia vera, tanto che alcuni brani del libro riportano documenti di archivio, che riguardano la storia di un contadino ribelle che vive in un paese della Calabria nella seconda metà dell’Ottocento, in pieno periodo postunitario.
Una storia, quella narrata, che si aggiunge ad altri recenti testi anche di diversa natura, che mira al recupero della memoria storica del Sud d’Italia, di quella storia, per troppo tempo negata, e per la quale è finalmente iniziato un processo di legittima revisione. Storia negata dalla storia stessa, che è raccontata sempre dai vincitori, ma che è stata messa in luce da chi ha saputo e voluto vedere, a cominciare da meridionalisti quali Fortunato, Salvemini, Nitti per finire, non perché ultimo, con il grande intellettuale Antonio Gramsci per il quale “…Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti…” (in L’Ordine Nuovo, 1920). Il brigantaggio dunque visto come una questione sociale e politica: la rivolta dei braccianti meridionali era stata un tentativo di contrastare la conquista del Sud. Quella dei briganti, con le dovute eccezioni ovviamente, riguardanti i criminali comuni, era stata una resistenza vera e propria con un tributo di sangue spaventoso, sparso sia dall’esercito dei piemontesi sia dalle bande dei briganti. In quel gramsciano “seppellendo vivi i contadini poveri” può compendiarsi metaforicamente la tragica storia del protagonista principale del romanzo: il contadino ribelle Fortunato (Nato) Pellicanò, U Baruni (il suo soprannome, la sua ‘ngiuria, lo chiamavano così perché si vantava di non avere padroni) figlio di Francesco e di Rosaria Celi, di Melicuccà – tra l’altro paese d’origine dell’autore – la cui vicenda dolorosissima suscitò tanto scalpore da essere riportata nella quarta di copertina della Tribuna illustrata della domenica del 4 novembre 1900.
Un’epopea tragica, segnata da sopraffazioni e ingiustizie, quella della famiglia di Nato, una famiglia contadina che vive una povertà dignitosa, che si fa bastare quel poco che ha e non si perde di coraggio, che è unita visceralmente nei pochi momenti di gioia e nei tanti di sofferenza. Una famiglia, come mille altre, di povera gente travolta dagli avvenimenti e dalla storia, in un’Italia dei primi decenni dell’Unità, che non ha lasciato scampo né a chi guardava nostalgicamente al passato borbonico, né a chi sognava un mondo nuovo.
Nato è un giovane che lavora per i padroni, com’era per tutti i poveri contadini di allora, anche perché dopo la morte del padre, il bisogno è tanto in famiglia e poi, bisogna fare la dote alle due sorelle. Quando gli arriva la cartolina precetto per il servizio militare, Nato è molto preoccupato così come tanti altri giovani, perché c’è il pericolo di stare via da casa tanti anni (secondo quanto prevedeva la coscrizione obbligatoria introdotta nel nuovo Regno d’Italia, altra grave misura contro il Sud prevalentemente contadino) e ciò causerebbe un grave danno alla famiglia. Ma Nato viene dichiarato rivedibile e ciò lo rende, da un lato, preoccupato, perché crede di essere ammalato, dall’altro, felice, perché potrà tornare a casa, al suo lavoro.
Nato ha molta dignità, sente pressante il senso di giustizia, se la prende con chi si sente gnuri, specialmente con tutti coloro che, prima borbonici, si erano genuflessi, ma per mettersi comodi, ai Piemontesi, come da miglior tradizione gattopardesca. I Piemontesi, che avevano mandato il generale Cialdini a sedare, con violenza inaudita, gli animi facinorosi di tanti poveracci che loro chiamavano briganti, colpevoli di chiedere solo pane e lavoro e di non voler fare il soldato abbandonando la famiglia per anni ed anni. E poi, lui aveva letto I miserabili e con gli amici parlava sempre di Jean Valjean, il protagonista del romanzo, vittima di tali e tante ingiustizie da fare vent’anni di lavori forzati e da essere perennemente braccato dalla Legge, il tutto solo per aver rubato qualcosa da mangiare. Insomma, Nato è uno che non bacia i piedi a nessuno, ma le cose iniziano ad andare male per lui quando osa sfidare un notabile del luogo, che gli dava da lavorare durante le annate olearie, reo di aver tentato di importunare la sorella Caterina, una delle donne dell’anta, che raccoglieva le olive. Infatti viene licenziato e, assieme a lui, anche la sorella, e da quel giorno, nessuno, proprio per non far torto al notabile molto potente e temuto, fu disposto a dargli lavoro. Non solo, ma le dicerie nel paese su Nato si diffondono in un lampo: il notabile sarebbe stato costretto a licenziarlo proprio perché troppo violento, insomma una testa calda.
L’arciprete del paese, don Felice, uomo buono e partecipe delle vicende della famiglia Pellicanò, aiuta il giovane fino a trovargli un lavoro come taglialegna ai Piani dell’Aspromonte, ed è proprio qui, in una delle tante notti trascorse al fuoco del camino, che fa un incontro decisivo: quello con il brigante Peppe Musolino.
Le visite di Musolino si ripetono fino a che gli chiede di aiutarlo ad allontanarsi dall’Aspromonte, scendere fino alla Piana e raggiungere Napoli, per imbarcarsi per l’America, unico modo per sperare di salvarsi da una morte certa.
Alquanto temeraria la cosa, Nato è di due cuori: rischiare di mettersi nei guai aiutando Musolino, o tirare per la sua strada tanto non può raddrizzare le gambe ai cani, ricordandosi, in tale occasione, delle parole di raccomandazioni che la sorella Peppa gli fece prima di partire per i Piani d’Aspromonte.
Nato, in realtà, ha già deciso: aiuterà Musolino.
In un agguato dei carabinieri, teso per catturare Musolino, Nato viene arrestato. Inizia il calvario che lo condurrà alla morte. Evade dal carcere di Radicena ed il primo pensiero è di andare dalla madre, ma qui tutti, compreso l’arciprete, lo convincono a consegnarsi alla Legge, e così avviene il clamoroso arresto nella Chiesa del Rosario di Melicuccà. L’epilogo è tragico: Nato muore. Suicida…o ammazzato? Vincenzo, il cognato di Nato, è convinto che sia stato ammazzato. Muore la madre, di crepacuore, perché sì, si può morire anche di crepacuore.
Una storia triste, tristissima che non poteva avere che questo epilogo. Un potente affresco dell’epoca in cui, situazioni di lampante prepotenza e sopraffazione, rendevano la vita del popolo del Sud ancora più difficile e insopportabile rispetto al periodo borbonico. Un potente affresco dei valori indistruttibili di quella sacra religione degli umili: la dignità del lavoro, il sentimento del dovere, il sacrificio, l’unità familiare, la solidarietà, che qui sono espressi con vigore e limpidezza, e che attraversano ogni pagina del romanzo, come motivo di fondo.
La narrazione è perfettamente centrata nel periodo storico di riferimento, vera nella ricostruzione, avvincente nel ritmo, e la scrittura è così vivida da sentire, percepire, vivere le scene narrate.
L’abile caratterizzazione dei personaggi, poi, soprattutto di Nato, fanno entrare il lettore in empatia con i personaggi stessi, provando sentimenti di comprensione, compassione, ma anche ribrezzo.
Il Barone, un bellissimo romanzo di Giuseppe Antonio Martino che, trattando un tema della nostra storia così tragico e complesso, potrà essere annoverato tra i testi più interessanti della letteratura meridionalista.
Rosanna Giovinazzo