Economia e Finanza
Pagamenti, Pa più puntuale. La Pubblica amministrazione italiana ha cominciato a rispettare i tempi di pagamento delle forniture imposti dalla legge. Almeno nella sua media, anzi, sono riuscite a liquidare le fatture con un giorno di anticipo rispetto alla scadenza. Ma non al Sud. La notizia, nei dati sui pagamenti dei debiti commerciali diffusi ieri pomeriggio dal ministero dell’Economia, c’è tutta. Anzi, ce ne sono due. Perché per la prima volta la versione evoluta del cervellone telematico della Ragioneria generale, il «Slope+», permette di calcolare in modo puntuale lo stock di nuovo debito generato nel 2018: 26,9 miliardi. Perché le 22.200 amministrazioni italiane registrate, dal più grande dei ministeri fino ai piccoli Comuni, hanno ricevuto 28,2 milioni di fatture per un valore di 148,6 miliardi; e ne hanno onorate 20,3 milioni per 120,7 miliardi. I nuovi numeri, insomma, fanno piacere a una fetta importante delle aziende che lavorano con la Pa, ma non a tutte. E soprattutto aiutano il governo italiano, sotto processo in Corte di giustizia europea proprio per il mancato rispetto dei tempi di pagamento imposti dalla direttiva 2011/7/ Ue: 30 giorni, 60 nella sanità. Le due notizie cruciali del nuovo «cruscotto dei pagamenti» potranno subire nelle prossime settimane qualche piccolo smottamento, ma tutto sommato marginale. Intanto, la frenata dell’economia mondiale che assottiglia il traino dell’export, lo stop and go sulle politiche fiscali, il caro spread che rende più selettivi i finanziamenti da parte delle banche e l’incertezza politica, la rissa continua che dura ormai da mesi, frenano gli investimenti privati. Ed in parallelo quelli pubblici, spolpati da anni di politiche di rigore e zavorrate dalla solita inefficiente burocrazia, non decollano. L’Italia risulta ultima in Europa anche alla voce investimenti, ha certificato martedì Bruxelles nel suo ultimo rapporto sull’economia dei 27, e tutti i numeri non fanno che dare ragione all’Europa. «Aumenta la spesa e cala la fiducia delle imprese», denuncia da settimane Confindustria, che per quest’anno prevede un ulteriore crollo degli investimenti privati nell’ordine del 2,5% in netta controtendenza rispetto agli ultimi anni dopo il +5,6% fatto segnare nel 2016, il +8% del 2017 e ancora il +4,9% dell’anno passato.
Crescita economica. «Per finanziare riforme fiscali strutturali servono coperture altrettanto strutturali, il deficit può coprire solo investimenti o interventi temporanei». All’indomani delle stime della commissione Ue il ministro dell’Economia Giovanni Tria conferma gli obiettivi di deficit e debito scritti nel Def: «I numeri della commissione sono in linea con i nostri». E le differenze sul debito e sui livelli 2020 nascono dal fatto che i calcoli Ue «non considerano impegni che sono già inseriti nella legislazione italiana, e che confermo». Tra questi impegni ci sono i 23,i miliardi di aumento Iva, sostituibile con tagli di spesa equivalenti, e i 18 miliardi di privatizzazioni. Se quest’ultimo «non sarà raggiunto bisognerà pensare a qualche altra misura per lo stesso scopo». Alle obiezioni in arrivo sul debito il governo risponderà che tra i «fattori rilevanti» che possono giustificare gli scostamenti c’è prima di tutto «la crisi economica». Ma Tria non si attende la richiesta di manovra correttiva: «La discussione sarà in autunno». «Più delle elezioni – aggiunge – a cambiare l’Europa saranno i fatti perché bisogna dare un messaggio nuovo ai cittadini» e superare «un modello di crescita basato su surplus ed export». Ma l’Italia è in recessione. A dirlo, stavolta, non è la Commissione europea, l’Istat o la Banca d’Italia, ma gli italiani stessi che si lasciano alle spalle un anno da dimenticare. L’analisi della condizione economica del paese, che va oltre il dibattito sulle variazioni decimali di un Pil stagnante, emerge dai risultati della ricerca Censis-Conad “Verso un immaginario collettivo per lo sviluppo. Cosa sognano gli italiani”. Lasciando da parte i sogni, il 55,4% degli intervistati denuncia un peggioramento della condizione economica rispetto a un anno fa; il 36,7% definisce la propria situazione stabile, mentre solo il 7,7% parla di miglioramento. Non serve affidarsi alla statistica perché – spiega Francesco Maietta, responsabile delle politiche sociali del Censis – «gli italiani hanno già deciso: siamo in recessione e chi ha un reddito più basso lo percepisce ancora di più». Le politiche a sostegno della crescita del governo gialloverde sono fallite, naufragate insieme all’utopia di un reddito di cittadinanza che avrebbe azzerato la povertà.
Politica interna
Conte firma e «licenzia» Siri. «Ora basta discussioni, basta litigi, non rispondiamo a eventuali provocazioni: dobbiamo tornare a lavorare insieme»: al termine del Consiglio dei ministri incentrato sul caso Siri, Di Maio chiarisce subito ai suoi che «si deve voltare pagina». «Lo dirò io alla Lega: sediamoci a un tavolo per tornare a riformare il Paese insieme, ce lo chiedono gli italiani che sono stanchi dei nostri continui battibecchi». E a margine di un comizio a Campobasso ribadisce: «Tutto bene, oggi giornata positiva. Adesso il caso Siri è stato archiviato». Il leader del Movimento è pronto per spingersi in prima persona a dialogare con gli alleati di governo, per ribadire che la decadenza del sottosegretario «non era una battaglia dei Cinque Stelle, ma un passo di trasparenza di tutto il governo». Nessun battibecco è il diktat. Solo Alessandro Di Battista sottolinea come la vicenda Siri «serva da lezione a tutti». Poi precisa: «Chi fa parte di un governo ha il dovere di lavorare esclusivamente nell’interesse della collettività». Mentre è in corso la riunione Siri si presenta in Procura per depositare una memoria e rilasciare una «deposizione spontanea», ma sceglie di non rispondere alle domande dei pm. «Mai preso soldi, ecco i miei conti correnti», dice. Di Maio rilancia: «Ho detto anche in Cdm che bisogna convocare subito un vertice su salario minimo e flat tax, e chi le propone porta anche le coperture. II mio obiettivo è non aumentare Iva e abbassare le tasse agli italiani. Lotta all’evasione seria e spending review sono i due obiettivi che ci dovremo dare. Sono contento, abbiamo ribadito la fiducia politica a Conte, c’è la volontà di andare avanti per quattro anni». Nelle sue parole si legge la voglia di credere a questo governo e in maggiore misura rispetto alle voci, alle indiscrezioni e anche alle dichiarazioni che provengono dalla Lega: Salvini dice che il governo andrà avanti, pur non piacendogli la decisione su Siri, eppure non con la stessa forza del collega. Parla anche Conte, che definisce la discussione del Cdm «non banale e molto franca, un passaggio politico e non meramente burocratico», mentre è ancora Di Maio ad enfatizzare il passaggio: «Si è dimostrato che anche sulle sfide impossibili si può andare avanti».
Raggi sfida i fascisti Di Maio l’abbandona. A metà giornata si è verificato un cortocircuito, tra Palazzo Chigi e il Campidoglio, che ha fatto sbandare paurosamente l’oliata macchina della comunicazione grillina. Alle 13, quando il vicepremier Luigi Di Maio scendeva soddisfatto in sala stampa a Palazzo Chigi dopo aver portato a casa il «licenziamento» del sottosegretario leghista Armando Siri indagato per corruzione, a Casal Bruciato la sindaca Virginia Raggi era in procinto di entrare nella casa popolare assegnata alla famiglia di nomadi assediata da Casapound e dal vicinato. I tempi scelti dalla prima cittadina, che non poteva far mancare ai rom la sua personale solidarietà dopo il linciaggio subito negli ultimi giorni, hanno disturbato il capo politico del M5S che, di nuovo, si è sentito il fiato sul collo di Matteo Salvini: tanto che lo staff della comunicazione di Palazzo Chigi ha poi veicolato l’«irritazione» del vicepremier Di Maio per «la tempistica» dell’iniziativa del Campidoglio. E lo ha fatto scimmiottando lo slogan «prima i romani», tanto caro alla Lega. Ma col passare delle ore, davanti al volto tirato della sindaca Raggi, alcuni esponenti del M5S hanno preso coraggio e non hanno assecondato Di Maio, schierandosi piuttosto con «la battaglia di civiltà» della prima cittadina. Salvini, noncurante che a Casal Bruciato la polizia avesse dovuto fare muro anche per evitare aggressioni fisiche alla sindaca Raggi, non si è lasciato sfuggire l’occasione: «Dove governa la Lega le case vanno prima a chi risiede in Italia da anni…». Ma la Raggi aveva tre possibilità. La prima era quella di fare il bis di Torre Maura: difendere a parole il diritto dei rom ad avere un alloggio ma piegandosi nei fatti alla protesta della folla, una storia imbarazzante nella quale c’è voluto il coraggio di un quindicenne per salvare l’onore del quartiere. La seconda possibilità era di tenere duro, ma rimanendo al sicuro in Campidoglio e lasciando che fosse la polizia a far rispettare quel diritto negato. La terza, infine, era quella di fare esattamente ciò che ha fatto: uscire dal suo ufficio, affrontare la rabbia, fingere di non sentire gli insulti e far sentire fisicamente a quella famiglia assediata e minacciata la presenza dello Stato e della città di Roma. Bisogna dunque darle atto di aver preso di sicuro la decisione meno facile.
Politica estera
L’Iran sfida Trump sul nucleare. Se alle parole seguiranno i fatti, un altro terremoto geopolitico rischia di abbattersi nell’arco di pochi mesi sullo scacchiere mediorientale. A 12 mesi dall’abbandono dell’accordo sul nucleare iraniano da parte degli Stati Uniti, a sei mesi dall’ultimo, pesante round di sanzioni americane contro Teheran, ed a 6 giorni dall’annullamento di qualsiasi esenzione per i Paesi importatori di greggio iraniano, la Repubblica islamica dell’Iran ha comunicato di voler sospendere alcuni dei suoi impegni nell’ambito dell’accordo internazionale raggiunto nel 2015. Ad annunciarlo il presidente iraniano in persona, Hassan Rohani, uno degli artefici del Joint Comprehensive Plan of Action (Jpcoa). «L’accordo sul nucleare ha bisogno di un’operazione chirurgica e gli antidolorifici dell’ultimo anno non sono stati efficaci. Questa operazione serve per salvare l’accordo, non per distruggerlo», ha dichiarato Rohani. Che poi ha spiegato come si muoverà Teheran; darà 60 giorni di tempo – una sorta di ultimatum – ai restanti partner del Jpcoa affinché riprendano le relazioni commerciali, i caso contrario potrebbe riprendere l’arricchimento del suo uranio e dell’acqua pesante per i reattori nucleari. In serata la reazione della Casa Bianca: il presidente Donald Trump ha emanato un ordine esecutivo che impone sanzioni su un ulteriore settore dell’economia iraniana, quello dei metalli. L’ordine riguarda ferro, acciaio, alluminio e rame e sanziona anche le istituzioni finanziarie straniere che siano coinvolte nel commercio di questi metalli. La situazione è incandescente. La mossa cambia in modo drammatico il quadro, perché è chiaro che se russi ed europei non trovano una via di uscita la Repubblica islamica si incamminerà verso la produzione di uranio utilizzabile in una bomba atomica. Gli Stati Uniti hanno subito ribattuto, con l’inviato speciale Brian Hook, che «non cederanno mai a ricatti». Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito come Israele non «permetterà all’Iran di ottenere un ordigno nucleare». Fra gli europei ha reagito per prima la Francia, decisa a «fare tutto il possibile per mantenere in vita il trattato», ma con l’avvertimento che «ci saranno conseguenze» se «non sarà rispettato». Concetto ribadito da Angela Merkel: Ci attendiamo che l’Iran lo rispetti nella sua totalità».
Deputata anti-Maduro si rifugia nell’ambasciata italiana. Poche ore dopo la revoca da parte del governo Maduro dell’immunità parlamentare a 7 esponenti dell’opposizione, il citofono della residenza dell’ambasciata italiana ha infranto la quiete notturna del “Country club”, una delle zone più belle di Caracas. Era Mariela Magallanes, una dei sette, che disperata, chiedeva protezione diplomatica per evitare l’arresto da parte della polizia. L’ambasciatore Silvio Mignano, dopo essersi consultato con la Farnesina, ha aperto le porte alla deputata, sposata ad un italiano e con la pratica per ottenere la cittadinanza già inoltrata agli uffici di Roma e le ha concesso la protezione richiesta. L’Italia adesso si trova così nella stessa situazione della Spagna, che ospita presso la sede diplomatica di Caracas Leopoldo López, il leader – con Juan Guaidó- della tentata sollevazione del 30 aprile. C’è però una sostanziale differenza tra la posizione spagnola e quella italiana: Madrid ha riconosciuto da subito come “legittima” l’autoproclamata presidenza ad interim di Guaidó; mentre l’Italia sotto la spinta del M5S (che ha soverchiato la linea leghista) si è rifiutata di farlo. Ne consegue che mentre la scelta spagnola risulta perfettamente coerente, quella italiana meno. Per spiegare la propria scelta, il ministro Enzo Moavero – da sempre perplesso rispetto all’impostazione grillina – ha fatto leva sul fatto che l’Italia, pur non riconoscendo Guaidó come presidente, considera comunque legittimo il parlamento e i parlamentari. Moavero ha condannato la revoca dell’immunità. «Una sentenza che viola i principi dello stato di diritto. Simili atti repressivi non aiutano la ricerca di una soluzione democratica e pacifica alla crisi venezuelana». Sulla questione venezuelana Lega e M5S sono divisi. Immediata la reazione da parte di alcuni esponenti pentastellati che appoggiano il governo di Nicolas Maduro. «Sorprende la presa di posizione del ministro Moavero – hanno scritto in una notai senatori Airola e Ferrara – che invece di condannare il gravissimo tentativo di golpe messo in atto dalle opposizioni, si scaglia contro la reazione giudiziaria del governo nei confronti degli esponenti politici che hanno sostenuto la cospirazione sovversiva».