Il Sud borbonico non era un regno industrializzato come l’Inghilterra. Ma non era molto indietro rispetto al Nord. E, soprattutto, aveva un gruppo di imprese di eccellenza che stavano crescendo sia pure all’ombra della protezione dello Stato. Così come succedeva anche in altri Paesi, dalla Francia agli Stati Uniti. Poi, dopo l’Unità, le cose cambiarono.
“Il programma che si stava portando avanti con successo – scrive Pasquale Pollio – prevedeva la cancellazione dell’economia come anticamera della colonizzazione. E non abbiamo parlato del salvataggio degli industriali del nord nel 1930 con la creazione dell’I.R.l. che pagarono, come al solito, tutti gli italiani; naturalmente anche nel dopoguerra, alcune leggi emanate dallo Stato, favorirono le aziende del nord.
Il Reale opificio di Pietrarsa, che in epoca borbonica era uno dei più grandi stabilimenti meccanici d’Europa, perdeva il suo cliente più importante, lo Stato dis… unitario. La lista delle aziende che entrarono in crisi nelle “provincie meridionali” a causa della politica governativa è lunghissima, vogliamo solo ricordarne qualcuna:
- I grandi opifici Gruppy & C,
- Lo Stabilimento di Mongiana
- L’opificio meccanico G. Lindemann di Bari
- La Reale Fonderia, il Cantiere di Castellammare
- Lo stabilimento tessile Real Fabbriche di San Leucio
- Il Real Convitto del Carminiello.
Stessa sorte per gli stabilimenti di grandi investitori esteri come:
- Schlaepfer, Wenner & C,
- Zublin & C. di Bari
- o per le cartiere, anch’esse tutte condannate alla chiusura.
Inoltre, il più grande arsenale della marina della penisola, quello di Napoli, fu chiuso, così le commesse furono passate a cantieri liguri o veneti.