Era di maggio quando Guglielmo, lavorando nei campi, rimuginò sulle parole del prevosto. Le femmine sono inferiori, gli aveva detto, lo scrive san Paolo. E in Guglielmo s’insinuò il dubbio: vuoi vedere che Dio ha torto? Coltiva in sé un progetto, mette da parte i pochi soldi che guadagna per riscattare i campi ma una sera, rientrando a casa, gli appare l’irreparabile. La moglie Rosa è riversa in una pozza di sangue. Che sia una punizione, la risposta divina a quel pensiero così contrario all’ordine preposto, alla religione?
Lombardia, anno Mille. Qui si ambienta “La ricompensa” (Luxco editions), terzo romanzo di Stefano Ferri, personalità poliedrica che si è imposto come autore nel 2013 con “Seppellitemi in cielo” e che nel 2016 ha pubblicato “Il bambino che torna da lontano”. Due titoli assolutamente distanti come generi, e questo terzo è ancora più distante dai primi due.
Racconta la storia di una famiglia contadina nell’Italia feudale, di quando il bue non era ancora stato sostituito dal cavallo nel lavoro di aratura e il contado era sottoposto al regime ecclesiastico e all’ignoranza. Guglielmo e i suoi, servi della gleba, mangiavano verdura ancora soltanto verdura. Non conoscevano il sapore della carne pur allevando e tosando le pecore. Non conoscevano il riso, nel senso del cereale, l’esistenza delle città e neppure del Papa. Non conoscevano le montagne ma soltanto la pianura, i campi coltivati a ortaggi e frutta. Né le case fatte di pietra. Conoscevano invece la remissione, le penitenze e il tributo che ogni giorno si doveva lasciare alla dispensa del vescovo, metà del raccolto in cambio di una forma di pane.
La malattia di Rosa si protrae per giorni, il dolore terribile le storce la bellezza. Guglielmo si arrabatta tra i figli piccoli la disperazione e gli inutili rimedi a base d’erbe e di preghiere. Nella sua catapecchia arriva un medico grasso e per la prima volta sente la parola, ‘spedale’. Per guarirla occorre portarla in città e si rivolge a Pietro, il magazziniere del vescovo. Che gli promette l’aiuto di Monsignore in cambio di un debito che durerà tutta la vita. Guglielmo avrà una scorta armata e un carro, direzione Milano. L’epilogo sarà tanto più tragico perché alimentato dalla speranza di una guarigione impossibile.
Romanzo storico? Realista? Descrittivo? E’ soprattutto il racconto dell’inesorabile condizione umana e dell’assoggettamento dei più semplici. Ma è anche la descrizione della lotta interiore di Guglielmo che, nella sua semplicità, si interroga sui pregiudizi che accompagnano la considerazione della donna e quindi di Rosa, che gli vengono inculcati dal prete, suo unico riferimento per la vita, per la salvazione. “Essere inferiore”, “porta dell’inferno” scrissero i padri della Chiesa. La devi sottomettere, gli intima il prevosto, devi trattarla come tratti il bue, picchiarla all’occorrenza. E Guglielmo lo fa, nella speranza di lusingare il Signore e salvare sua moglie. Rosa è preda del destino, è consapevole del suo stato. Qualche volta riesce persino a sorridere.
Stefano Ferri ci dice che è una storia vera. Non gli abbiamo chiesto quale. Aspettiamo che si dipani nella seconda parte dell’opera, attesa per il mese di ottobre.
Maria Tiziana Lemme