“Se ricevi un atto dove c’è scritto che sei il Papa e tu non proponi ricorso, non c’è giudice tributario che possa modificare una realtà divenuta immutabile per l’eternità. Sei il Pontefice, Sua Santità e lo sarai fino alla fine dei tuoi giorni”. Parla il commercialista Giuseppe Pedersoli, già difensore civico del Comune di Napoli e assessore al Bilancio del Comune di Frattamaggiore, esperto di contenzioso tributario, che del tema del consolidamento degli atti ha fatto un caso di studio. “Chiunque si occupi, a vario titolo, di questa materia – aggiunge –potrà avere mille dubbi, ma confida in un’unica certezza: se il Fisco ti notifica un atto e tu non lo impugni, quell’atto diventa definitivo…
E quindi cosa accade da quel momento in poi?
Contestazioni, proteste, lamentele, rilievi, devono essere espressi entro sessanta giorni, con le modalità note agli esperti. Ma se questo non accade, si alza il muro insormontabile dell’atto che si è consolidato. Non importa che la richiesta sia manifestamente iniqua, che il ricorrente abbia sostanzialmente e palesemente ragione.
Vuole dire che in questo caso il ricorrente ha ragione e allo stesso tempo torto?
In dottrina si parla di “cristallizzazione della pretesa tributaria”. Ma il muro insormontabile inizia a sgretolarsi.
E meno male. Se pure quello di Berlino è stato abbattuto, anche cristallizzazione, definitività e consolidamento possono andare in frantumi, no?
La Corte di Cassazione, con due recenti sentenze, ha scardinato uno degli assiomi del Decreto legislativo 546 del 1992: l’art. 19 comma 3.
Ma l’istituto dell’autotutela non consentiva già di scavalcare quel “muro”, visto che non sembrava possibile abbatterlo?
Sì, ma l’autotutela ha un profilo odioso per tutti coloro che tentano di difendere i contribuenti: la discrezionalità del funzionario, del dirigente, del responsabile del procedimento che devono valutare per poi decidere se annullare o meno la pretesa e l’atto con il quale essa (la pretesa) si manifesta. Avvocati e dottori commercialisti dediti al contenzioso hanno, tutti, almeno un aneddoto da raccontare con il quale si dimostra che l’annullamento in autotutela di un atto, ritenuto scontato, viene negato dal solerte rappresentante della pubblica amministrazione.
Può fare qualche esempio scelto fra questi aneddoti?
Cito le frasi più frequenti: Non posso assumermi la responsabilità, annullo solo se me lo ordina una sentenza passata in giudicato, i termini della questione non sono quelli da lei esposti.
Lei ha detto però che in fondo al tunnel si intravede una luce, ancorché fioca…
Ripercorriamo quindi l’iter giuridico per lasciare una speranzaa chi, come ha detto, ha ragione ma ha torto, nel senso non si è difeso al momento opportuno”.L’art. 19, comma 3 del D.lgs. n. 546 del 1992 recita: “Gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente. Ognuno degli atti autonomamente impugnabili può essere impugnato solo per vizi propri. La mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a quest’ultimo”.
Più facile osservare le Tavole della Legge ricevute da Mosè sul Monte Sinai…
Proviamo a spiegare. L’Amministrazione finanziaria ha il potere-dovere di annullare un atto, di ritirare la propria pretesa fiscale, anche d’ufficio, pure senza una specifica richiesta del contribuente. Questo accade se gli atti sono riconosciuti illegittimi o infondati. Ma è proprio questo il punto. Le affermazioni appena enunciate, tacitamente, riconducono l’eventuale decisione di annullare, di “ritirare la pretesa”, alla valutazione di chi ne ha (avrebbe) il potere. Ma quello che è chiaramente illegittimo e infondato per il contribuente, potrebbe non esserlo per chi è tenuto ad esaminare e valutare l’istanza.
La situazione si complica se a seguito dell’istanza in autotutela ci si vede recapitare un provvedimento di diniego, o se matura il cosiddetto silenzio – rifiuto. Come comportarsi, in tal caso?
L’impugnazione del diniego, tacito o espresso, non è condivisa a pieno, in dottrina. E nemmeno in giurisprudenza. Soprattutto se, come sovente accade, c’è un avviso di accertamento che è diventato definitivo. Nel 2018, sempre la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 21146, confermò che nel processo tributario l’impugnazione dell’atto di diniego di autotutela è ammissibile unicamente in caso di profili di illegittimità del rifiuto e se sussistono ragioni di rilevante interesse generale.Successivamente, con il decreto ministeriale n. 37 del 1997, si sono precisati gli organi competenti ad esercitare l’autotutela, le ipotesi di annullamento e gli adempimenti degli uffici.
E quindi?
L’unico limite – è doveroso sottolinearlo– è costituito da un’eventuale sentenza passata in giudicato. Ma quando, correttamente, può esercitarsi l’autotutela in soccorso dell’atto illegittimo e dell’interesse pubblico?
Lo chiedo a lei…
Sotto il profilo oggettivo è possibile individuare l’esistenza di un duplice presupposto per l’esercizio dell’autotutela. Il primo è costituito dall’illegittimità dell’atto, che l’art. 2, comma 1, del Decreto ministeriale n. 37 dell’11/02/1997ha riconosciuto nei seguenti casi: errore di persona;errore sul presupposto dell’imposta;doppia imposizione;mancata considerazione di documentazione successivamente sanata, non oltrei termini di decadenza;sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati;errore materiale del contribuente facilmente riconoscibile dall’amministrazione.
E il secondo presupposto?
E’ costituito da uno specifico, concreto ed attuale interesse pubblico all’eliminazione dell’atto, diverso dal generico interesse al ripristino della legalità. Inoltre, c’è da aggiungere che, per quanto la presentazione dell’istanza di autotutela non sospenda i termini per ricorrere, è opportuno che l’Agenzia (o altro Ente) comunichi l’esito dell’istruttoria al contribuente prima dello spirare del termine per l’impugnativa, al fine di evitare l’insorgere di un contenzioso (si veda, sul punto, la circolare ministeriale n. 258 del 1998).
In definitiva, come deve comportarsi, allora, il cittadino che, magari per un disguido informatico si vede notificare un avviso di accertamento per l’Imu da versare per il Colosseoo per la Tari del Maschio Angioino?
In un Paese normale, le possibilità sarebbero due: strappare in mille pezzi, senza timori, l’atto ricevuto in notifica o, per zelo, inviare un’istanza in autotutela, rispettivamente al Comune di Roma e a quello di Napoli, per chiedere l’annullamento della pretesa.
Ipotizziamo di vivere in un Paese civile e che il cittadino sia zelante…
L’istanza di annullamento in autotutela viene presentata, ma non si riceve risposta. L’avviso di accertamento diventa definitivo. Dopo un po’, viene notificata la cartella di pagamento. Lo sfortunato contribuente, ancora una volta, si fida della Pubblica Amministrazione e presenta una seconda istanza in autotutela, a Roma e a Napoli.
Se mai gli risponderanno, dal Campidoglio o da Palazzo San Giacomo, sarà allo stesso modo: “Purtroppo ci sono ben due atti divenuti definitivi: l’avviso di accertamento e la cartella. Lei deve pagare”. Non è così?
Il moloch dell’art. 19 comma 3 del decreto legislativo 546 del 1992 non lascia spazio alla difesa: devi parlare, devi protestare a tempo debito. Se non lo fai, se non impugni l’atto che contiene una pretesa illegittima, infondata, assurda, pazzesca, ti esponi al rischio della discrezionalità di chi, poi, da impiegato o funzionario o dirigente dovrebbe assumersi la responsabilità di annullare un provvedimento che si è cristallizzato, che è diventato definitivo.
Ma non ha detto in premessa che il muro inizia a sgretolarsi e i moloch a vacillare?
Come nel più classico dei film a lieto fine. Ma dopo decenni, non dopo due ore di proiezione cinematografica.La quinta sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24033 del 26 settembre 2019, ritiene ammissibile l’impugnazione del diniego di autotutela per ragioni di interesse generale. Naturalmente la Corte esclude che possa essere accolta l’impugnazione dell’atto di diniego proposta dal contribuente, il quale contesti i vizi dell’atto impositivo che avrebbe dovuto far valere in sede di impugnazione dell’atto, prima che divenisse definitivo. Pochi mesi dopo, esattamente l’11 maggio del 2020, sempre la quinta sezione della Suprema Corte, deposita la sentenza 8719 e rivaluta l’istituto dell’autotutela. Non è importante evidenziare il merito della vicenda a cui fanno riferimento le due sentenze.
Che cosa è importante invece?
Evidenziare che gli Ermellini richiamino la giurisprudenza che, ormai da tempo, interpreta estensivamente l’art. 19 del D.lgs. 546 del 1992 e vuole ricomprendere tra gli atti impugnabili dinanzi al giudice tributario anche il diniego di sgravio. Quest’ultimo è da considerarsi quale atto comunque incidente sui rapporti tributari tra Fisco e contribuente e sul punto vi sono altre decisioni (Cassazione, n. 285/2010 e n. 16100/2011). Le sentenze 24033/2019 e 8719/2020, finalmente, attribuiscono degna importanza all’istituto dell’autotutela.
Nel disperato tentativo di fornire un aiuto concreto al lettore, probabilmente difensore tributario, si deve evidenziare che alla base di un eventuale ricorso c’è da dimostrare l’esistenza di un interesse di rilevanza generale per l’Amministrazione alla rimozione dell’atto?
Non è consentito contestare la fondatezza della pretesa tributaria. Ma la Suprema Corte tace sul significato di “interesse di rilevanza generale per l’Amministrazione”. Per non “scontrarsi” con altri consolidati (quelli) principi di dottrina e giurisprudenza, bisognerà evitare di sostituirsi all’Amministrazione nella sua attività impositiva. La questione giuridica di fondo è la necessità di un interesse generale, pubblico. Un interesse che sia di palese evidenza.
In conclusione, se il Fisco italiano sostiene che sei il Papa, o meglio che devi pagare Imu o Tari per il Colosseo e per il Maschio Angioino e non ti sei opposto ad un eventuale atto iniziale, c’è speranza di sopravvivere?
La Corte di Cassazione, con lesentenze 24033/2019 e 8719/2020, ha rivoluzionato (secondo me normalizzato e nessuno me ne voglia) il contenzioso tributario italiano. Se non sei il Papa, se non sei il proprietario del Colosseo o del Maschio Angioino, puoi sempre gridarlo al mondo intero, a prescindere dalle assurde regole giuridiche, a prescindere dalla rigidità delle norme. L’importante è sapere che non esistono casi di “assoluta inammissibilità del ricorso presentato” perché l’atto (o gli atti) precedenti non sono stati impugnati.
Se non sei il Papa…
Se non sei il proprietario o “utilizzatore” del Colosseo o del Maschio Angioino, non lo sei e basta. Non ci può essere una (folle) norma tributaria che affermi il contrario.