Di Antonio D’Amato*
L’Europa sta vivendo una delle fasi più drammatiche dalla fine della seconda guerra mondiale. Per la prima
volta, la pace che davamo per un valore acquisito è minacciata in maniera sempre più grave. Abbiamo la
guerra in casa nel nostro Continente e, alle porte di casa, nel Sud dell’Europa e nel Mediterraneo. Al tempo
stesso, stiamo vivendo la crisi economica più grave dal dopoguerra, in quanto crisi non finanziaria, ma
strutturale e di competitività, ben diversa da quella importata dalla crisi dei subprime americani del 2008 o
da quella indotta dalla pandemia.
Oggi risultano sempre più evidenti le contraddizioni e soprattutto le debolezze competitive dell’economia e
dell’industria europea, accumulate nel corso degli ultimi quindici anni e che hanno registrato
un’accelerazione violenta con il Green Deal e le sue forti derive ideologiche, con la conseguente
deindustrializzazione del nostro Continente.
Questa crisi dell’economia e dell’industria europea nasce da tre errori fondamentali.
Il primo è quello di aver creduto che, nella nuova fase della globalizzazione, l’Europa potesse continuare a
rimanere l’area di maggiore qualità della vita, di welfare, di democrazia e civiltà del pianeta pur
delocalizzando le proprie attività produttive nelle regioni del mondo a basso costo. Ci siamo illusi di poter
rimanere gli esclusivi detentori del progresso, della ricerca e dell’innovazione scientifica e abbiamo
dimenticato la più importante lezione della storia dello sviluppo industriale: ricerca, crescita, innovazione e
manifattura camminano di pari passo e sono inscindibili. La conseguenza è stata quella di aver perso intere
filiere industriali e al tempo stesso capacità di ricerca, innovazione e sviluppo.
Il secondo errore è stato quello di avere accentuato, dalla metà del decennio scorso, il vizio della iper-
regolamentazione europea, imponendo zavorre competitive che hanno costretto soprattutto le industrie di
base a ricollocarsi ai confini dell’Europa e libere di fare dumping sociale, valutario e soprattutto ambientale.
Fino ad arrivare ai giorni nostri, al terzo errore, e cioè al Green Deal che, cavalcando il “main stream” che
individua nello sviluppo industriale la causa principale dell’emergenza climatica, ha prodotto una messe di
provvedimenti legislativi, direttive e regolamenti che ha travolto tutte le filiere economiche e produttive,
accelerando così il processo di impoverimento dell’Europa. Tutto questo senza le necessarie valutazioni di
impatto ambientale, sempre in assenza di neutralità tecnologica e con l’illusione di ritornare ad
un’economia silvestre che non ha nessuna sostenibilità né economica né sociale. Soprattutto ha prodotto
gravi contraccolpi negativi sia sul piano dell’impatto ambientale sia sull’autonomia e l’indipendenza stessa
dell’economia e della società europea. Basti pensare a quello che è successo sul fronte dell’industria
automobilistica, della tassonomia, dell’agricoltura, della chimica, della farmaceutica, della protezione della
proprietà intellettuale, fino ad arrivare al regolamento sugli imballaggi che proprio in questi giorni è nella
sua fase decisiva. Questo regolamento e la vicenda della tassonomia rappresentano gli esempi più rilevanti
dell’erraticità e della contraddittorietà della regolamentazione europea che in questi anni di green deal ha
fatto vere e proprie inversioni a U rispetto alle direttive europee precedenti sulle quali i Paesi membri e il
sistema dell'industria avevano investito massicciamente per contribuire a rendere l'Europa la realtà più
sostenibile dal punto di vista ambientale del pianeta. Tant'è che oggi noi rappresentiamo solo il 7% delle
emissioni a livello globale.
Occorre a questo punto chiarire che sono un europeista convinto così come sono sempre stato in prima fila
nel promuovere le ragioni di un’industria sostenibile, non solo dal punto di vista economico ma soprattutto
dal punto di vista ambientale. Ma l’Europa nella quale credo è fondata, innanzitutto, su valori e ideali che
rappresentano il portato fondamentale della nostra civiltà e della nostra storia e la garanzia indispensabile
per la difesa della pace e della democrazia. L’Europa dei padri fondatori fu costruita nel dopoguerra sulle
promesse di sicurezza, crescita e prosperità ma si basò in primo luogo sul rafforzamento dell’economia e
dell’industria come elemento indispensabile per provvedere al benessere e quindi alla coesione sociale
delle popolazioni provate dai disastri della guerra. Il sogno di Delors, nel 1992 , vedeva nella costruzione di
un grande mercato unico la via maestra per garantire libertà, crescita e stabilità. Quella fase construens si è
infranta sugli scogli dell’allargamento dell’Europa nel 2004, fatto in fretta, senza la necessaria preparazione
e soprattutto senza un adeguamento della governance nei processi decisionali. Altrettanto, e forse ancora
più grave, è stato il fallimento del progetto di Costituzione europea e soprattutto l’incapacità a condividere
ideali e valori fondanti della nostra identità europea. A partire dalle nostre radici giudaico-cristiane e dai
nostri principi di libertà, democrazia, solidarietà ed equità sociale, passando per la mancanza di una
strategia condivisa di sviluppo industriale e di competitività, per arrivare alla politica estera, della difesa,
dell’energia.
Paradossalmente quello che sembra oggi caratterizzare il comune sentire europeo è soprattutto l’eccesso
di demagogia e ideologia che ha segnato, in particolare, questa legislatura. Mentre il mondo si attrezza in
maniera sempre più aggressiva per competere e le tensioni nei rapporti internazionali sono contraddistinte
da un crescente livello di conflittualità, l’Europa resta chiusa all’interno della propria bolla di
autoreferenzialità ed è sempre meno capace di valorizzare le ancora importanti risorse di cui dispone per
recuperare un ruolo fondamentale nel contribuire a portare più stabilità e pace a livello globale. Mai come
ora abbiamo bisogno di più Europa, ma di un’Europa più unita nei suoi valori, più competitiva dal punto di
vista economico, più forte dal punto di vista istituzionale e quindi più rilevante dal punto di vista politico.
Come la storia ci insegna, senza forza economica non c’è forza politica. Per questo la prima delle urgenze è
rilanciare la competitività del sistema industriale europeo. Già da qualche mese la Von der Leyen si è resa
conto della necessità di rendere più competitiva l'Europa ed ha chiesto a Mario Draghi di predisporre una
strategia e un piano di azione. Ma attenzione, mentre si studiano gli interventi da mettere in campo sono in
approvazione, ancora in queste ultime settimane di questa legislatura europea, provvedimenti che
impatteranno in maniera negativa sulla competitività dell'Europa. Occorre quindi agire subito per evitare
ulteriori danni. Le prossime elezioni europee saranno quindi fondamentali non solo per misurare i rapporti
di forza fra gli schieramenti politici all'interno di ciascun Paese membro ma soprattutto per affrontare i veri
grandi temi dell'Europa che vogliamo costruire. Quando l’Europa delle ideologie e della demagogia vince su
quella degli ideali e dei valori, saltano la coesione sociale e la tenuta politica e istituzionale, la democrazia
collassa e la pace è a rischio.
Fonte: Il Foglio