Parla l’opinionista Raffaele Tovino
“A memoria, è stata la campagna elettorale più strana da quando ho diritto di voto. Ho detto strana, ma forse è meglio dirla tutta: insulsa, anodina e senza sangue”. Parla Raffaele Tovino, esperto in diritto del lavoro e sindacale, direttore generale di ANAP (Associazione nazionale aziende e professionisti e fondatore dell’ente bilaterale ENBIFORM). Tovino è anche un opinionista delle pagine napoletane del Riformista e di Edicola del Sud, giornale nato a Bari diffuso in Puglia e in Basilicata. Un osservatore che conosce bene il mondo delle imprese e del lavoro, che conosce le inedite criticità che da qualche mese spezzano le gambe a imprese e famiglie. La sua critica alla qualità del dibattito della tornata elettorale in corso si sintetizza così: non c’è la necessaria attenzione ai problemi di chi crea lavoro e ricchezza.
“C’è invece un eccesso di spettacolarizzazione – spiega – dovuto anche alla pervasività dei social media, e una tendenza a dividersi per bandiere come nel tifo da stadio, invece di ragionare sui problemi versi e le loro concrete soluzioni”.
Dottor Tovino, lei definisce insulsa, anodina e senza sangue la campagna elettorale che si conclude domenica 25 settembre. Le sembra che sia in campo la tendenza a simulare uno scontro tra posizioni, un gioco delle parti, uno psicodramma?
Un po’ tutt’e tre questi ingredienti hanno fatto impazzire la maionese. Ma le sembra accettabile che per giorni il dibattito pubblico è rimasto bloccato sul seguente dilemma: Bella Ciao è una canzone divisiva, appartiene al movimento comunista o alla Resistenza? Davvero si può ancora discutere se sia giusto o no il diritto delle donne di determinare in autonomia il momento di essere madri? Secondo lei è normale disconoscere il dramma di migliaia di imprese sedute sul ramo che qualcuno sta segando, a colpi di consumi energetici lievitati di due o tre o quattro volte? Ha sentito parlare di come risolvere il dramma dei giovani del Sud costretti a cercare fortuna all’estero? O dei lavoratori pagati a nero e costretti a lavorare senza tutele? Nulla, zero, meno di zero.
Quali conseguenze comporta questa sottovalutazione, a suo parere?
In uno scenario allucinato, il Paese sembra partecipare al ballo del Titanic mentre la nave si lancia alla cieca tra gli iceberg. L’inverno è alle porte e navighiamo come in una notte fonda e senza luna. Ecco perché gli elettori tutte le vacche, direbbe Hegel, sono nere. E non c’è più molta voglia di andare alle urne turandosi il naso, insomma. In realtà la scelta atlantista e il sostegno senza condizioni all’Ucraina ha prodotto un livellamento delle posizioni tale per cui un vero distinguo tra gli schieramenti, e tra i partiti dello stesso schieramento, su soluzioni e proposte utili al Paese, non c’è. E se c’è, non si vede. Ecco perché, tra disaffezione e refrattarietà diffusa, cresce il partito del non voto. Viene da chiedersi se i partiti in competizione, che dovrebbero comporre la quintessenza della classe dirigente del Paese, si rendano conto della febbre che infiamma le fibre del Paese reale, inasprisce le coscienze, dinanzi alla devastazione silenziosa del nostro tessuto produttivo, che fiacca quel poco di realtà industriale che nel Mezzogiorno aveva reagito, con resilienza, al lungo attraversamento del deserto del Covid. Lo spettacolo dell’attuale ceto politico, selezionato con tutt’altro criterio che il merito, la capacità, le competenze, è desolante.
E’ toccato a Papa Francesco il compito di porre attenzione al disagio profondo degli italiani e rimettere il lavoro, al centro della pubblica discussione. Lo ha fatto in una recente assemblea al Vaticano, alla presenza di circa cinquemila imprenditori e del presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Qual è il suo giudizio a questo proposito?
Penso che il Papa si è assunto l’onere che dovrebbe appartenere a chi fa politica di professione: rimarcare che se è troppo ampia la forbice tra i guadagni dei manager e i salari, tale sperequazione può tradursi in una malattia difficile da curare. Ha esortato i “buoni imprenditori”, a essere protagonisti dei grandi cambiamenti della nostra epoca. Perché senza nuovi imprenditori, ha detto, la Terra non reggerà l’impatto del capitalismo, e lasceremo alle prossime generazioni un pianeta troppo ferito, forse invivibile. Non scontato e non banale, infine, il riferimento del Pontefice ad un imprenditore del secolo scorso, un industriale che considerava l’impresa come una “realtà spirituale”, frutto della condivisione di obiettivi e risultati tra capitale e lavoro.
Si tratta di Adriano Olivetti, che aveva concepito l’impresa come realtà che cresce sulla base del senso di appartenenza a un destino comune, e sulla empatia e solidarietà tra tutti.
Esatto. Ed è bene ricordare che proprio nel Sud, vale a dire sullo spalto che sovrasta Pozzuoli, Olivetti ha inaugurato nel 1955 il suo avveniristico stabilimento. In quella occasione ebbe a dire che lavorando ogni giorno tra le pareti della fabbrica per produrre qualcosa, oltre a portare a casa il salario, si partecipa ogni giorno alla vita pulsante della fabbrica, alle sue cose più piccole e alle sue cose più grandi. Finendo così per amarla, per affezionarci e allora essa diventa veramente nostra. Il lavoro diventa a poco a poco, dice l’industriale di Ivrea, parte della nostra anime, diventa “quasi una immensa forza spirituale”. Ma ricordare il suo insegnamento è utile anche per capire dove sta andando il nostro Paese.
In che senso?
Pochi ricordano che Olivetti ha avuto, in una certa fase della sua vita, anche l’intuizione di un formare un movimento, e non un partito, con il quale entrò in Parlamento: il Movimento di comunità, che aveva come simbolo la campana. La critica ai partiti di Olivetti, come ebbe a dire Stefano Rodotà, non ha nulla a che spartire con le ripulse dei nostri tempi, perché è aliena da pericolosi scivolamenti verso le suggestioni del no alla politica. Al posto della democrazia rappresentativa, rivendicava una democrazia “integrata”, più forte perché insediata in nelle fibre vive della società italiana.
Si riferisce al famoso saggio “Democrazia senza partiti”?
Sì, un volumetto che anticipa di decenni la crisi del rapporto tra partiti ed elettori che viviamo oggi. Olivetti individua lucidamente il limite di una democrazia affidata ai partiti, che non aiutano il progresso degli uomini, anzi, perché sono rimasti addietro di un secolo. Siamo agli albori di quel fenomeno che poi è stato definito come partitocrazia, formato per effetto di un occulto e complesso ingranaggio di interessi e personalismi. Per Olivetti questo segna l’inizio della decadenza, che dura in Italia da settant’anni. A suo avviso i partiti hanno un limite che non può essere superato.
Quale?
Per come sono definiti dalla loro denominazione, i partiti rappresentano una parte, vale a dire un solo aspetto della vita multiforme. Citando Gobetti, non esita a definirli “entità rissose e non pacifiche, intolleranti e non conciliative, parziali e non eque, eccessive e non moderate, volgari e non generose…”. E citando Antonio Rosmini arriva a dire che “ciò che impedisce la giustizia e la morale sociale sono i partiti politici. Ecco il verme che rode la società…”. La sentenza è senza appello: se il governo parlamentare si configura come un governo di partito, la politica viene corrotta dalla tendenza a favoreggiare gli amici e ad opprimere gli avversari.
Quindi è a causa di questi aspetti che sono degenerati negli anni che ultimamente avanza, come partito di maggioranza, il partito del non voto?
Fino a che il sistema elettorale sembrerà fatto apposta per imporre candidati dall’alto, bloccandone in sostanza la rielezione, a protezione di un ceto politico la cui qualità è decaduta, il minimo che ci si possa aspettare è: l’affermazione dilagante del partito del non voto.
Se questa è la diagnosi, qual è invece la terapia?
Alla democrazia autoritaria dei partiti, Olivetti oppone una democrazia integrata. E’ un tipo nuovo di democrazia, una forma nuova di rappresentanza più forte, più efficiente della democrazia ordinaria, troppo debole e incline ad essere sopraffatta dalla forza del denaro o dalla pressione di gruppi organizzati che non sono l’espressione della maggioranza. Questo è il compito che si è assunto il Movimento di Comunità a cui diede vita partendo dal Canavese: tracciare una via atta a dimostrare che è possibile uno Stato senza partiti ed è possibile che nell’ambito dello Stato vivano ugualmente dei dualismi creativi, quella contrapposizione di forze, quel contrasto fra tradizione e progresso senza i quali la società e la vita sarebbero esaurite nell’immobilità. Poi la morte prematura ha spezzato le ali a questo progetto, tuttavia non ha reso meno efficace l’analisi.
Le forze del lavoro, creano, insieme, le Comunità: le Comunità daranno luogo allo Stato; la politica si svolgerà all’interno delle istituzioni. Non vi saranno altri poteri a contestare e contendere il potere dello Stato. E’ questo il perimetro del suo progetto?
Olivetti lo dice a chiare lettere. Falliremmo la nostra meta se seguissimo metodi tradizionali. Se per instaurare l’Ordine delle Comunità dovessimo ricorrere all’inquadramento di forze di un normale partito politico. Forse il tempo è maturo. Tornare al suo insegnamento gioverebbe molto al nostro Paese.