“Spaccanapoli”, “Gesù, fate luce!”, “Diario napoletano”, “Ninfa plebea”. Sono solo alcuni dei romanzi dedicati a Napoli o ispirati alla gente di Napoli di Domenico Rea, vigoroso esponente di una generazione letteraria incisiva, che ha avuto in Compagnone, La Capria, Prisco alcuni fra i principali protagonisti. Scrittori ai quali si deve la critica più efficace e penetrante della Napoli da cartolina, manieristica, stucchevole. Conoscitori – forse i più profondi – dei “vizi” della città, e del perché essa si avvita eternamente sui suoi limiti, del perché il suo popolo è entrato nella macchiettistica: folklore locale, popolo di maschere.
Sudonline non lo può intervistare, è morto del 1994. Ma il suo pensiero su Napoli è ancora in un libello intitolato “Le due Napoli”. Proviamo a intervistarlo, anteponendo ai passaggi fondamentali della sua riflessione alcune domande “virtuali”.
Domenico Rea all’anagrafe, al secolo Mimì Rea. A lei si devono alcune delle pagine più sanguigne su Napoli e sulla sua gente. Si è definito nient’altro che un’estensione plebea del discorso folkloristico su Napoli e sul suo retroterra. Può dirci che cosa schiettamente pensa dei suoi concittadini?
Che han finito per credere di essere simili ai personaggi cantati, narrati e rappresentati dai loro scrittori. Quando qualcuno ha tentato la via della verità, per primi i napoletani si sono ribellati; e non vi si sono riconosciuti; mentre credono di ritrovarsi nelle canzonette… Una disgrazia tale da suggerire il dubbio che tra i napoletani e i suoi interpreti più accreditati ci sia un patto: fingere a se stessi la vera essenza della loro natura…
Due Napoli, quindi. Fra di loro, in quale rapporto sono?
Tra le due Napoli c’è la medesima differenza che corre tra un oggetto fotografato e l’oggetto in sé…
E i turisti di oggi, come i viaggiatori del Gran Tour, restano affascinati dalla imperturbabile anomalia del carattere partenopeo, non è così?
Nella fotografia anche le macchie possono diventare piacevoli. Anche i particolari più sinistri – i cenci sembrano bandiere – acquistano un fascino; e il fascino porta a una deviazione della verità… E’ un fatto che qualsiasi turista, in qualunque tempo sia venuto a Napoli, allontanandosene abbia dimenticato la miseria, il vicolo, le tristi passioni a cui sono dannati questi uomini… Dovunque si parli di Napoli, c’è una disposizione a comprendere Napoli… Quanti sono i forestieri che rivolgono il pensiero a Napoli senza sorridere, sia pure in buona fede?
Insomma, i napoletani non li prende mai sul serio nessuno?
Basta sapere che Tizio o Caio sia napoletano perché si abbia gusto di ascoltarlo o lo si inviti a cantare una canzone. E lui parla e canta, per non deludere. Ma quando ha finito di parlare e di cantare… (gli si dice): Caro napoletano, ora ho da fare, con la tua spensieratezza non si mangia”. E il napoletano resta solo, con la sua miseria…
Alcuni – come De Sade o Oscar Wilde, più di recente Ceronetti e Arbasino – ne parlano come di un popolo sporco, dedito all’ozio, alla prostituzione, che vive in una realtà degradata, insopportabile… E così via
(Mi chiedo) come sia stato possibile che un popolo corrotto da quando se ne ha memoria, sia ancora tanto vivo, anzi nella piena capacità d’insegnare qualcosa agli uomini, di dare a loro, se non altro, uno spettacolo che gli stranieri chiamano vita piena.
Quale giudizio ha di Pulcinella, che in molti aborriscono come maschera “bestiale”, irrimediabilmente ossessionata dall’idea di bere e di mangiare. E’ ancora una espressione piena della napoletanità?
(Penso che) questa maschera è positiva e resta ancora la più seria interpretazione della mentalità napoletana, attenta a rubare un attimo di godimento, con qualunque mezzo, per la fondamentale ragione che la vita è un mare, ora buono ora cattivo, e l’uomo ora un naufrago ora un superstite. Questo uomo (lo) potremmo chiamare figlio dell’avventura.
Si ha la sensazione che, più di ogni altra disciplina, solo l’arte e la letteratura siano in grado di andare fino al cuore del problema…
Napoli non ha avuto per una sola volta nella sua storia la fortuna di dare i natali a un solo artista che potesse guardarla dal fondo del pozzo.
Nemmeno il Mastriani dei Misteri di Napoli? Nemmeno la Serao che di Napoli ha scandagliato il Ventre?
Come un popolo tanto disposto al farsesco sia poi giunto a certi suoi grandi giorni, a Masaniello, al netto rifiuto dell’Inquisizione… alla Repubblica del 1799 e ai moti del 1820, non ce lo sapremo spiegare se dovessimo prendere sul serio la letteratura (di Mastriani) che si è lasciata attrarre quasi sempre dagli effetti e non dalle cause, che ha sottomesso la miseria al colore, non il colore ad essa… Ciononostante, soltanto Mastriani può darci un’indicazione precisa, una topografia plastica e morale autentica della vecchia Napoli. Nei suoi romanzi, racconti, novelle, commedie Napoli sembra essere una “nazione della nazione”… La fantasia gli difetta e la mentalità positiva socialista riduce la maggioranza dei suoi libri a una serie di testi appannate dal neorealismo.
E la Serao?
Sembra incredibile che la Serao, la più grande scrittrice italiana, non abbia saputo trarre dal Ventre di Napoli un’opera che sapesse puntare direttamente alle cose come seppe fare Verga, che spogliò le cose del folclore siciliano e le rese nude e terribili.
Facciamo un altro nome: Eduardo De Filippo…
Che ci presenta (in Napoli milionaria) un popolo che tenta di vincere, inerme com’è, con le sole armi del povero, sotterfugi, espediente, la miseria. (Ma anche lui) ci presenta un vicolo in cui vien quasi la voglia di abitare.
Raffaele Viviani…
Alla nudità e semplicità (di Napoli) dovrebbero giungere gli scrittori, come Raffaele Viviani, col suo scabro dialetto, che ignora l’esistenza della lingua italiana, riuscì qualche volta…
Possibile che tra tanti artisti che hanno incontrato e attraversato Napoli non ce ne sia uno capace di giungere alla plastica verità di Napoli e della sua gente?
Dovremmo riaprire l’Andreuccio da Perugia del Boccaccio. Il Boccaccio ha scritto il più realistico racconto napoletano, di un’attualità sconcertante… Il Boccaccio è uno dei pochissimi scrittori che abbia visto nei napoletani degli uomini concreti, positivi e abbastanza cattivi, preferibili agli uomini-pulcinella o agli uomini-macchiette. Uno scrittore fermo e sano come Boccaccio dovrebbe lavorare a una rappresentazione artistica del nostro mondo.
Per arrivare a che cosa?
A rendere nella sua crudezza spietata che cosa è un “basso”, quest’eterno basso di cui si parla sempre e di cui non si sa quasi nulla, questo basso in cui nessuno, nessuno oserebbe dormire per ribrezzo e schifo della carne e mortificazione dello spirito e nel quale non hanno in verità né dormito, né mangiato scrittori, attori e compositori di canzoni…
Mentre invece cosa si dovrebbe fare per comprendere Napoli alla radice?
Il punto capitale per comprendere (…) la porta misteriosa di tutta l’Italia meridionale, non consiste più nel dipingere descrivere e cantare le sue creature umane dalla facce più strane… ma nel recuperare lo spirito, le passioni nascoste, il mondo pre-alfabetico, intricato e complicato di cui si sa pochissimo. Solo scendendo in questo abisso a vortice si potrebbe venire a capo della meravigliosa vita psicologica di personaggi, capaci, dico capaci, di tenere in braccio un topo e accarezzarlo e parlargli come a un cane o come a un qualsiasi amabile essere vivente.
Bisogna compiere un lavoro immane di spogliamento e sottrazione della napoletanità per ritrovare davvero, alla fine di tutto, Napoli e i napoletani?
Per noi resta il fatto che ovunque troviamo quattro righe su Napoli, prostituzione, furto, arrangiamento e compromesso sono i punti di forza. Ma il sentimento tragico della vita, spogliato e nudo, che qui regna su tutto, come la violenza di vivere almeno una volta, perché una volta si vive, rimangono forze oscure. La brama di vivere, che ossessiona questa gente di fondo pagano, oppressa dalla miseria, ha fatto sembrare il napoletano un uomo incontinente.
Non è così?
(Penso che) il napoletano non insiste nel male, perché il suo ideale è un mondo semplice e buono che raramente riesce a realizzare. E’ un essere umano che nelle più violente furie conserva, più che un filo di ragione, un’illuminazione di bene.
Forse il napoletano “vero”, la Napoli cruda e nuda, vengono tenuti sempre piuttosto a bada, a una certa distanza. Perché Napoli reca sempre con sé come una costante minaccia…
Anche la “minaccia” è stata ignorata dalla letteratura. Non si tratta sempre di una minaccia armata, ma animalesca, ritrovabile in quasi tutte le azioni dei plebei napoletani. Anche se due giovani fanno l’amore, essi sentono di svolgere una rappresentazione drammatica. Si prendono, si lasciano, si rimproverano a vicenda l’amore che li tiene legati, si violentano in una ricerca carnale inimitabile… Persino nelle canzoni più spensierate, quando l’allegria dovrebbe esplodere, si sente una voce di sangue e di polvere; come quelle “voci di notte” che ti svegliano di soprassalto. Nelle “tavoliate” – le grandi mangiate – addirittura si è in attesa che qualche cosa di violento accada. E non c’è festa dove non si verifichi un mezzo fatto di sangue. Questa violenza è stata taciuta, credendo che essa disonorasse il paese dell’allegria.
E invece questa violenza che cosa rappresenta?
Essa è invece il sentimento tragico della vita che esplode e che sta stampato sui volti. Si pensi alle nostre donne così lontane dalla bellezza arcadica digiacominiana. Donne grasse, affannate, arruffate, discinte, come uscite da una zuffa mortale, gli occhi vivi e adirati, le labbra frementi che non riescono a dire per intero le parole; con cui è impossibile l’amor gentile e impossibile non far figli, essendo nate madri, e questo è il loro volto, di “madri dell’Universo”, dove è scolpita la storia delle generazioni.
Lei ci parla della coesistenza di “due” Napoli: a che cosa allude?
La Napoli che si stende sul mare fino a Posillipo, non è Napoli. Essa vive lontano dal “ventre”. Vi sta al di sopra e l’ignora. Le grandi arterie come Foria, il Rettifilo hanno alle spalle una massa incandescente di bassi con una convivenza sfacciata del povero e del ricco… Capri è a un tiro di schioppo, ma chi l’ha mai vista?