E’ noto che l’esordio del governo Draghi è stato accompagnato da una coda polemica riguardante il tasso di meridionalismo del nuovo esecutivo. Qualcuno ha persino scritto (su Repubblica Napoli) che “… dal governo Draghi il Mezzogiorno ha ricevuto fin qui molti segnali negativi”. Pensiero di Massimo Villone, che non può essere certo tacciato di revanscismo neoborbonico, essendo un autorevole ed equilibrato opinionista, ex senatore Ds, professore emerito di Diritto costituzionale alla Federico II.
Il netto sbilanciamento territoriale, del resto, è evidente dai numeri, con 17 ministri del Nord su 23. E a Maria Stella Gelmini, insediata al Ministero delle Autonomie regionali al posto di Francesco Boccia, fa eco Stefano Bonaccini (considerato l’esponente più vicino alla Lega del Pd) presidente della Conferenza delle Regioni dal 2015. Insomma tutte le caselle strategiche sono state occupate. Il Mezzogiorno è quindi orfano di Giuseppe Conte, Peppe Provenzano, Claudia Azzolina e Gaetano Manfredi? Il sudonline lo ha chiesto a Fabio De Felice, imprenditore, titolare del Gruppo Protom ed editorialista del Mattino, uno fra i massini esperti di innovazione digitale nel Sud. Ecco che cosa ci ha risposto.
Il Mezzogiorno è uscito dalla stanza dei bottoni ed è ancora sotto shock per l’allarme sui fondi del Recovery Fund. Lei che ha una sede aziendale anche a Milano, vede il rischio che siano spesi anzitutto al Nord, considerata la locomotiva della crescita italiana?
Credo debba essere dato atto a Mara Carfagna di aver dato un contributo decisivo a correggere questa percezione. Lo ha fatto organizzando in brevissimo tempo gli Stati generali del Mezzogiorno, una richiesta che veniva dal mondo delle fondazioni e delle associazioni meridionali, a partire dalla Svimez presieduta da Adriano Giannola. Rilevo con piacere che uno dei tavoli tematici, coordinato dal deputato di Italia Viva Catello Vitiello, è stato dedicato proprio al tema cruciale della innovazione digitale.
Quindi sono superati gli strascichi polemici che hanno visto nuovamente in prima linea il quotidiano fondato da Vittorio Feltri, che all’indomani dell’insediamento di Draghi alla presidenza del Consiglio, invita il Sud a non piangere, a non limitarsi alle lamentazioni, a non postulare nuovi fondi con il cappello in mano?
E’ una polemica un po’ sterile, perché propri da quel pulpito venne la predica al contrario. Fu il giornale diretto da Pietro Senaldi, infatti, a lanciare una giaculatoria nel 2019, contro il governo precedente, con il famoso titolo “Comandano i terroni”, in cui trascinava lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella, siciliano. Lamentando, è proprio il caso di dirlo, che tre cariche istituzionali su quattro erano in mano a uomini del Sud. Niente di riprovevole, per carità, siamo in democrazia. Ma dobbiamo metterci d’accordo. O siamo vittimisti tutti e sempre o nessuno e mai.
Resta la domanda fatidica. Perché, nella squadra dei “migliori” scelta da Draghi, i meridionali si contano sulle dita di una mano – Carfagna, Di Maio, Lamorgese e Spranza – e non c’è nessun napoletano?
Il problema è serio e riguarda, secondo me, non sol e non tanto l’esecutivo ma come viene percepita tuttora la nostra comunità. Siamo soliti andare orgogliosi, giustamente, quando in tv passano le immagini delle ambientazioni di Mina Settembre o del Commissario Ricciardi sotto il Vesuvio. Sui social fioccano i post celebrativi. Ma non bastano a rimuovere preconcetti e pregiudizi su napoletani, se non ci mettiamo anche noi del nostro.
Il problema quindi non è come ci vediamo noi, ma come ci percepiscono gli altri?
Diciamola tutta. La Carfagna ha detto giusto: basta lamentazioni, è ora di costruire. Costruire cosa? Abbiamo un tessuto produttivo esiguo. Disponiamo di eccellenze industriali di rilievo, ma non abbastanza numerose da generare nel territorio più vasto il tessuto connettivo dello sviluppo. Molte aziende restano ‘fragili’, ossia non di caratura nazionale. Spesso prevalgono governance di tipo familiare, scarsa inclinazione innovativa, debole vocazione internazionale.
E tutto ciò quali conseguenze determina?
Anzitutto una: i manager di alto profilo qualitativo che scelgono Napoli siano pochi. Diciamoci tutto: il nostro è un “capitalismo di relazioni”, cresciuto in misura prevalente grazie a concessioni pubbliche. Talvolta evoluto all’ombra di contesti ‘opachi’ o poco trasparenti. Abbiamo vissuto di recente l’infatuazione di una presunta rinascita economica della città, affidata a una offerta turistica di qualità non eccelsa, fatta di b&b e pizzetterie. Salvo essere poi completamente spazzati via alla prima seria criticità, vale a dire le restrizioni causate dall’emergenza pandemica, circostanza in cui questo tipo di economia turistica ha mostrato tutta la sua fragilità.
In compenso qui, da noi, nascono tante start up. E molti giovani attingono ai sussidi di “Resto al Sud” e diventano imprenditori…
Si ma spesso manca il coraggio di verificare quanti – fra questi e fra le start up cui si accennava – riescono a sopravvivere alla prova del primo anno.
Insomma non c’è partita, per Napoli e il Mezzogiorno, nelle intenzioni di resilienza e ripartenza che sono le sfide che abbiamo di fronte?
Sono convinto che solo partendo da una esatta percezione dei nostri limiti e, soprattutto, dalla esecrazione dei nostri atteggiamenti più distorti e futili, possiamo cogliere lo straordinario passaggio storico avviato con il nuovo governo. La scelta di Draghi valga come un severo monito che ci viene rivolto a cambiare spartito. Abbiamo quindi il dovere di accettare la sfida che il nuovo esecutivo ci pone con l’istituzione di due dicasteri, transizione ecologica e innovazione digitale, affidati a due eminenti personalità del mondo scientifico e del managment di alto profilo.
Se lei fosse sindaco, che cosa farebbe per rimettere in corsa la nostra città?
Prenderei di petto, ad esempio, il tema dello scarso livello di digitalizzazione che abbiamo registrato alla fine dell’anno scorso nella classifica delle prime città più smart e digitali d’Italia. La graduatoria annuale “ICity Rank” registra nel 2020 una accelerazione della trasformazione digitale delle città italiane per l’impatto dell’emergenza Covi19. Ma ancora una volta sono le città metropolitane del Centro Nord quelle che figurano meglio Firenze, Bologna Milano. Roma è quarta. Poi Modena, Bergamo, Torino, Trento…
Questo tema ci riporta dritti al divide digital, una delle forbici del divario Nord – Sud… E’ il segno che è il divide è ancora ampio e si evince anche nei processi di trasformazione digitale: due terzi dei capoluoghi meridionali si collocano nel terzo più basso della graduatoria. Napoli (37° posto) fa peggio non solo di Cagliari, che al nono posto è la prima città del Sud, ma anche di Palermo(13°), Lecce(17°) e Bari(20°). E questi sono dati di fatto, non cartoline del golfo con lo sfondo del Vesuvio che fanno da cornice alle serie televisive di successo.