A tutta prima non parrebbe esserci una ragione specifica per cui l’identificazione dello sfondo della Gioconda interessi particolarmente Napoli.
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Di per sé la “notizia” che la verifica tecnica della localizzazione dello sfondo della Gioconda condotta dallo Studio degli architetti Bellocchi di Piacenza con l’ausilio di modelli 3D convalida elementi essenziali della tesi che identifica il paesaggio dipinto con quello reale di Bobbio è tale da suscitare interesse generale, trattandosi del quadro più famoso del pianeta, e non necessita di considerazioni aggiuntive. Tuttavia – tenendo fermi i debiti distinguo tra le risultanze scientifiche della verifica tecnica, avente valore a sé stante e riferita esclusivamente al paesaggio, e la ricostruzione storica legata al luogo e alla donna ritratta – riguardo a Napoli non va sottaciuto l’intreccio che viene a formarsi tra questa nuova acquisizione, fondata esclusivamente su dati oggettivi e scientifici, e gli scenari storico-biografici che riconducono alla corte di Milano e alla famiglia Sforza.
La connessione è sorprendente e travalica la storia nota che, a partire dal 1494, vide la Napoli aragonese contrapposta a Milano, per le vicende occorse tra la duchessa Isabella, (resa vedova in quell’anno ed usurpata nel 1495), e il ramo degli Sforza facente capo al Moro, in quanto chiama in causa altri due importanti esponenti della corte milanese. .
Questi sviluppi sull’asse ideale Milano-Napoli, che si è preferito lasciare in ombra in altri contesti, assumono rilevanza in territorio napoletano, in quanto parte costitutiva del “ritrar l’istoria” di una coppia di personaggi enigmatici, congiunti dal destino e ritratti in due grandi opere d’arte, una delle quali custodita proprio nel cuore di questa città
[aesop_chapter title=”Il nodo coniugale che sulla via di Milano lega la Gioconda a Napoli” bgtype=”img” full=”off”]
L’inedito intreccio, che si sostanzia di elementi storici e biografici precisi, ed al tempo stesso così profondo da sconfinare nel mistero, ha origine da una complessa ricerca, ramificata in due direzioni e che tratta separatamente dei due quadri: “La Gioconda” di Leonardo ed il tutt’oggi controverso “Doppio ritratto di Luca Pacioli con allievo” conservato al Museo di di Capodimonte, attribuito con riserva al de Barbari, e che attende più approfondite indagini mirate a definirne univocamente l’autore. Si tratta del quadro che contiene il cartiglio con la mosca e la scritta IACO.BAR.VIGEN/NIS P.1495, la cui decifrazione genera storie sforzesche datate 1495 come il cartiglio, espresse in frasi latine e tutte firmate immancabilmente VINCI (sull’argomento negli archivi del Sud on line è disponibile la più esaustiva informazione).
[aesop_image img=”https://ilsudonline.it/wp-content/uploads/2015/09/allievo-ritratto-pacioli.jpg” align=”left” lightbox=”on” caption=”” L’allievo e il cartiglio sul tavolo”, particolare del Doppio ritratto di Luca Pacioli con allievo”, 1495, Museo di Capodimonte ” captionposition=”left”]
La messa in relazione tra le due opere trova la sua ragion d’essere nella duplice identificazione, conseguita in pluridecennali studi e ricerche, secondo cui la modella della Gioconda è Bianca Giovanna Sforza e il giovane (detto l’”allievo”) al fianco del frate matematico nel ritratto di Luca Pacioli è il suo sposo Galeazzo Sanseverino, genero del Moro e comandante dell’armata ducale. Di conseguenza, l’”allievo”del quadro di Capodimonte, che è vestito e pettinato alla foggia milanese del 1495, (con abito identico a quello del Musico dell’Ambrosiana in rifletto grafia, e pettinato e vestito come il “vessillifero” della miniatura del Messale Arcimboldi che lo raffigura), risulta essere il “marito della Gioconda”.
La localizzazione dello sfondo in Bobbio ha un peso decisivo per l’identificazione della Gioconda in Bianca Sforza, e la verifica puramente tecnica sul paesaggio effettuata dallo Studio di architetti piacentini – anche se prescinde dal considerare la variabile storico-biografica e ogni ipotesi di identificazione della modella – nel validare l’ipotesi della localizzazione, apporta un indiretto ma cruciale dato conoscitivo per dare un nome alla donna. Poichè sussiste un legame preciso tra Bianca e quel possedimento che era stato dei Dal Verme. Localizzazione dello sfondo e identificazione inoltre – in virtù del vincolo coniugale – affiancano alla “Gioconda/Bianca” l’”allievo” ritratto accanto a Luca Pacioli, ovvero quel Galeazzo Sanseverino suo mecenate e legato al frate matematico da un’amicizia tale da ospitarlo in casa propria a ridosso del 1495 e fino al 1499, nel palazzo milanese in Porta Vercellina ove dimorava con la moglie.
Per altro verso, il legame col paesaggio della “Gioconda /Bianca” chiama direttamente in causa in prima persona il Sanseverino, quale signore delle terre circostanti Bobbio. E anche per lui vale l’associazione precisa “castello Malaspina Dal Verme /ambientazione della Gioconda”. Infatti, da poco vedovo – in base a quanto riferisce nelle ”Antichità Estensi” l’illustre storico Ludovico Muratori – fu coinvolto in un avvelenamento conseguente alla morte della moglie: quel segreto – per usare il termine del Muratori – venne “propalato” (cioè reso largamente noto) in punto di morte dalla sua complice Francesca Dal Verme (figlia del conte Pietro, Signore di Voghera e del castello di Bobbio espropriato dal Moro nel 1485, il quale ne assegnò le terre ai due sposi nel 1489). Il passo del Muratori, alquanto sibillino, fa vibrare tra le mura di quel castello perturbanti interrogativi di inganni e veleni che non avranno mai risposta…
Riscontri oggettivi e documentazione storica, unitamente a rilevazioni tecniche si inseriscono in una ricostruzione a 360 gradi che ,per quanto riguarda la direttrice “milanese” della ricerca accentrata su “Bianca/la Gioconda” e gli Sforza ha il sapore inquietante del “giallo cortigiano”, mentre per quanto riguarda la direttrice “napoletana”, che si incentra sulla “decifrazione del cartiglio di Capodimonte” – inscritto nel quadro in cui compare il marito Galeazzo nella veste dell’”allievo” del Pacioli – assume il fascino senza tempo della leggenda. E in effetti l’apparentamento dell’ enigmatica Gioconda con l’”allievo” del quadro di Capodimonte, che contiene l’ancor più enigmatico cartiglio, ha un che di leggendario e dirompente. Ma tanto più suggestiva e sistemica è la tesi, tanto più rigorosa, analitica ed empiricamente fondata ha da essere la teoria scientifica su cui si fonda, tale da poter essere “falsificata di fatto” ed empiricamente verificabile.
Lo sfondo della “Gioconda”: una verifica tecnica rigorosa su dati di realtà
Bobbio sullo sfondo dipinto può essere inteso come un non-luogo, matrice simbolica e punto d’incontro di destini e snodo ( allora pavese) di vie che dalla Milano sforzesca conducono idealmente alla Napoli di oggi. Ma al contempo è anche un luogo determinato e reale, che il Pittore ha voluto riconoscibile nei secoli, come emerge dalle risultanze della ricerca.
Nello specifico, l’identificazione del paesaggio con quello di Bobbio si fonda su una teoria che può essere “falsificata di fatto” e che è empiricamente verificabile, in quanto si fonda su un “sistema precisato” di dieci punti dello sfondo dipinto coincidenti rispettivamente con altrettanti punti visibili e riconoscibili nel paesaggio reale e comunque storicamente documentati sulla base di dati d’archivio.
[aesop_image img=”https://ilsudonline.it/wp-content/uploads/2015/09/MINIATURA-VESSILLIFERO.jpg” align=”left” lightbox=”on” caption=””Il vessillifero”, particolare della Miniatura del Messale Arcimboldi, L’investitura del Moro, 1495 (Galeazzo Sanseverino è identificato con certezza nel vessillifero nel verbale della miniatura)”” captionposition=”left”]
Su una linea di rigore, gli architetti piacentini Angelo e Davide Bellocchi, che co-firmano la relazione di verifica, tengono a precisare in premessa “non entriamo nel merito dell’identità della modella, che non è il nostro compito”, astenendosi dal considerare variabili che esulino dalla loro specifica competenza disciplinare e focalizzando l’indagine esclusivamente sul vaglio di elementi del paesaggio bobbiese osservato dal “punto di vista” di una finestra sulla facciata nord est del castello di Bobbio, che a far data dal 2010 avevo individuato in due libri (Savona,2011/2012). Tra questi dieci elementi assume particolare rilevanza il ponte, che nel dipinto è visibile alla sinistra della modella, ricco di storia e carico di valenze simboliche. Quel ponte era visibilmente rovinato, così come – in base a documenti d’archivio – si presentava il ponte Gobbo durante il primo soggiorno milanese di Leonardo (1482-99) e fino a tutto il 1509. Il ponte di Bobbio all’epoca aveva cinque archi, di cui quello più grande crollato, e dalle raffigurazioni del XVII e XVIII secolo la sua forma è risultata pressoché coincidente con quella del ponte della Gioconda sulla base di comparazioni grafiche.
Circa quel ponte – noto universalmente come il ponte della sfida tra san Colombano e il diavolo – nel 2012 avevo scoperto un segreto: Leonardo prima di dipingerlo dove lo vediamo nel quadro, ne aveva disegnato un arco (visibile solo in rifletto grafia) e poi lo aveva coperto col colore. La scoperta si era rivelata un “segreto di Pulcinella”, perché spiegabile in base al senso comune: infatti se Leonardo non avesse dipinto il ponte un po’ più indietro rispetto all’abbozzo dell’arco (posto nell’angolo in basso), il ponte non si sarebbe potuto vedere per intero. Ebbene l’”arco nascosto” coincideva esattamente alla vista con la posizione del ponte Gobbo dalla finestra della facciata nord est del castello e la ricostruzione in 3D dello Studio piacentino ne ha dato conferma, misurando pure il modico spostamento all’indietro operato dal Pittore..L’anticipazione pubblicata già nel 2012 di tale spostamento trova conferma nella relazione di verifica, confermando la scientificità previsionale della teoria.
Il problema cruciale nel corso della verifica – non soltanto relativamente alla coordinata del ponte, ma per tutte le dieci individuate – è stato quello di ricostruire il castello Malaspina-Dal Verme così come era all’epoca, tramite una simulazione altamente probabilistica della sua struttura alla fine del XV secolo, collocandolo nel paesaggio reale elaborato in tridimensionale. In seguito, ai fini della determinazione del “punto di vista”, è stata individuata in base a tracce murarie sulla facciata nord est la finestra a bifora, verificando da tale “punto di vista” la conformità della posizione delle “ coordinate” (questa prima fase oltre al ponte ha vagliato la coincidenza della grande ansa del Trebbia che si assimila a uno slargo lacustre alle spalle della modella e la coincidenza del corso serpentino del fiume; le ipotesi sulle montagne ed in particolare la Parcellara, le formazioni ofiolitiche, oltre a quelle calanchiche).
Le risultanze della verifica (consultabili nella sintesi visiva posta al link) stanno a convalidare l’ipotesi che – contrariamente all’opinione diffusa – il paesaggio della “Gioconda” sia reale nella sua interezza. Infatti non risulta che il Pittore abbia operato manipolazioni, giustapposizioni o ibridazioni di paesaggi diversi né forzate compressioni. Pur artisticamente trasfigurato, sulla scorta delle “coordinate” geografico/storico/biografiche poste nella tesi lo sfondo risulta riconoscibile nel paesaggio bobbiese visto dalla finestra individuata nel castello. Ma la scelta delle “dieci coordinate” dello sfondo da parte del Pittore ne esalta la potenza simbolica, e al tempo stesso rivela grande lungimiranza, perché gli elementi del paesaggio reale che ad esse corrispondono hanno resistito nei secoli, essendo ancora esistenti e storicamente documentati con certezza.
Concludendo: una teoria scientifica in bilico tra leggenda e verità
Sia nella ricerca sul paesaggio della” Gioconda” che in quella sulla decifrazione del cartiglio di Capodimonte. l’immaginazione e le ipotesi più audaci, quale “primo motore” della teoria scientifica, coesistono con l’assunzione della “corrispondenza ai fatti” come ideale regolativo.
[aesop_image img=”https://ilsudonline.it/wp-content/uploads/2015/09/2-arco-visibile-in-riflettografia.jpg” align=”left” lightbox=”on” captionposition=”left”]
Stando a Popper – che pure riconosce il ruolo del pensiero intuitivo e metafisico nella scienza, – l’approssimazione alla verità non può prescindere dai fatti, e dalla messa in opera di cruciali controlli atti a confutare la teoria e i fatti previsti mettendoli alla prova, ed in tale ottica va intesa la verifica tecnica di cui viene qui data la notizia. Questo vale anche per la “decifrazione del cartiglio” presente a Napoli, per un verso originata da un’ipotesi sull’orlo dell’irrazionale ma per altro verso tale da generare soluzioni aventi tutte carattere di esperimento controllabile, verificabile e ripetibile (anche matematicamente).
In questa duplice ricerca nell’universo dell’arte, l’apertura costante alle confutazioni fattuali si svela paradossalmente coesistente con la fascinazione della “leggenda”, intesa come racconto in cui, per un moto del profondo, fantasia e personaggi/eventi storici/luoghi si congiungono e lasciano un segno nell’immaginario collettivo (o meglio, in quello che ne resta oggi, nel tempo dei miti caduti, del pensiero unico, della mercificazione e desertificazione globale).