Di Pasquale D’Aiuto, Avvocato
Era il 1594 quando il Caravaggio dipinse “I bari”. Lo straordinario dipinto mostra tre uomini ad un tavolo da gioco, di cui due intenti a raggirare il terzo, un giovane dal viso candido, a carte. All’apparenza, i protagonisti sono tutti ben vestiti, segno di elevata estrazione sociale ma, ad uno sguardo giusto un po’ più attento, i guanti di uno dei bari sono sporchi e bucati. Ora, all’epoca, le persone abbienti amavano sfoggiare il bianco poiché esso – luminoso, latteo, immacolato – costituiva l’emblema della pulizia e, per estensione, della capacità economica di potersi permettere abiti non soltanto ricercati nelle fogge ma lavati di fresco. Ora, sulla mirabile tela, il baro che scruta nelle carte dell’ingenuo, giovane nobile (il cui colletto e i cui sbuffi delle maniche non a caso sono bianchissimi) indossa guanti proprio di quel colore. Perché? Perché intende fingere una ricchezza che non possiede, in tal modo apparendo, agli occhi della sua colpevole vittima, degno di fede e… meritevole di condividerne il tavolo da giuoco. Fatalmente, per la vittima.
Quest’opera mirabolante si è subito affacciata alla mia mente quando ho potuto osservare, su un social, la lunga successione di immagini ritraenti Colleghi ed amici, fieri e sorridenti, con indosso uno dei simboli della nostra professione intellettuale: la toga. Le fotografie recavano, tutte, per chiara convenzione, il seguente motto: “Con la toga sulle spalle e nel cuore”, evidentemente a significare il giusto orgoglio di svolgere l’attività di avvocato come pura esteriorizzazione d’un sentimento – dell’esserlo, non solo del farlo – immanente, immutabile, intangibile.
La mia prima reazione è stata un sorriso di partecipazione. Ma poi, nel continuare ad imbattermi in quei ritratti, non ho potuto fare a meno di ricordare le consuete conversazioni, anche con i Colleghi ivi effigiati, sulle tremende difficoltà della nostra amata professione; e subito sono tornati al pensiero criticità estreme, file per una copia, attese innanzi all’aula, spese misconosciute, buchi organizzativi, innumerevoli incongruenze, disordine parossistico, affollamento (oggi, si direbbe assembramento…) nei corridoi, mancanza di carta, faldoni buttati in ogni angolo, procedura calpestata: in poche parole, lo stato della Giustizia nel nostro meridione – per non dire in Italia. Ed il sorriso è divenuto un ghigno di consapevolezza.
Perché ho dovuto realizzare, con dolore, che noi avvocati non siamo così diversi da quel baro dai bianchi guanti, lerci e consumati. Il nostro guanto è proprio la toga; il buco è l’inconcludenza strutturale ed invincibile dei nostri sforzi, seppur apprezzabili. La toga rappresenta, come il guanto bianco, la nostra aspirazione ad essere distinti, efficaci, decorosi; ma il foro nel guanto è una voragine ed essa, tragicamente più evidente che nel dipinto di Caravaggio, è plasticamente rappresentata dalla realtà nella quale ogni giorno ci arrischiamo a compiere la nostra sempre più messianica professione intellettuale.
Quando indossiamo, fieri, la toga, rappresentiamo un decoro, un’autorevolezza che tuttavia, in concreto, non possiamo più vantare e che soltanto pochissimi di noi, spesso per benevola eredità, possiedono ancora; quindi, rischiamo di rifugiarci in tale paravento per evitare di dover considerare, con amara lucidità, che siamo una categoria ridotta all’irrilevanza.
Ed il fatto che siamo in buona fede, che davvero amiamo quel che facciamo (e che siamo!) non ci salva dall’essere colpevoli. Anzi, lo siamo doppiamente: perché, così facendo, riusciamo mirabilmente nel compito di recitare non solo la parte dell’impostore ma pure quella della vittima, che è ingenua in modo imperdonabile. Diveniamo, quindi, bari e, al contempo, incaute vittime, anche di noi stessi. Ma questo atteggiamento vagamente puerile, seppure ispirato, sul piano morale, dai nostri luminosi propositi, si rivela esiziale per il nostro lavoro e, in definitiva, per la nostra vita.
Infatti, il decoro che ostentiamo, simboleggiato dalla toga, non è reale. Noi avvocati non siamo più decorosi. Anzi: siamo una delle categorie più maltrattate e marginali d’Italia. Noi siamo quelli che si beccano rinvii di anni senza ragione, provvedimenti inspiegabili (soprattutto ai nostri clienti!), prassi assurde; che non vengono retribuiti, pur mettendoci anima e studio; che non hanno garanzie sul futuro, che versano le imposte e sostengono la propria previdenza in modo non proporzionato al reddito, persino nel caso di guadagni nulli; che ricavano sempre meno e, pertanto, possono aspirare ad una famiglia soltanto in tarda età oppure mai; che lavorano in uffici giudiziari sgangherati, polverosi, disordinati, con personale ridotto all’osso e comprensibilmente demotivato: noi siamo divenuti un popolo di centinaia di migliaia di disillusi che se lo sognano, il decoro.
Quindi, che la toga sia sulle nostre spalle e nei nostri cuori è vero, aulico e bello ma quell’indumento simbolico non deve divenire un drappo che celi la mediocrità generale cui siamo ridotti. E non è sfoggiando simulacri che verremo fuori dalla crisi cui siamo stati condotti a causa di decenni di politica di settore demenziale, non è mostrandoci sorridenti come se il nostro lavoro ci facesse campare sereni e soddisfatti che riusciremo ad evitare il baratro ed a nasconderlo, a noi stessi ed al mondo! Non possiamo più eclissarci dietro a un dito: dobbiamo prendere coscienza che oggi, in questo Paese, quella toga che noi vestiamo con orgoglio ha smarrito il suo valore storico ed ideale.
Il vero decoro consiste in ben altro: esso è il lavoro dignitoso, equamente retribuito, onorevole, serio e non serioso, sorridente ma non ridanciano, meritocratico, corrispondente a quel Diritto di cui l’Italia, soprattutto il Sud, costituisce la culla riconosciuta in tutto il mondo. Il decoro della professione non è (solo) la toga ma l’opposizione concreta a tutto quanto essa sia costretta a nascondere, ossia quella povertà di motivazioni, visioni, strumenti, certezze e mezzi che abbiamo timorosamente, gradualmente accettato. Rifugiandoci nel nero e negli ori della toga rischiamo, pur con le migliori intenzioni, di celare, senza successo, un nero ben più buio e tetro, che è quello delle nostre vite lavorative sempre più compromesse.
Invece, accanto alla pur sacrosanta valorizzazione dei nostri simboli, dobbiamo riprendere a pensare, a costruire, a protestare, a cambiare quel che non va e potrebbe essere migliorato, a non aver timore della Giustizia ma profondo rispetto di essa, che è prima di tutto rispetto per noi stessi che ne siamo attori imprescindibili, con tutti i nostri difetti e la nostra umanità perfettibile. Basta, basta rimarcare i segni di un’Avvocatura decorosa soltanto in tesi, una categoria così periferica che non siamo stati nemmeno considerati in una Costituzione pur così tanto emendata, che non abbiamo neanche il coraggio di virare con decisione verso le efficienti opportunità del processo telematico, che accettiamo supinamente di essere trattati quasi alla stregua di questuanti, ogni giorno, come se chiedessimo l’autorizzazione di poter lavorare, in una cancelleria, in un’aula d’udienza, in un ufficio pubblico, in mezzo alla gente.
È questo, proprio questo il momento di comprendere che la dignità della nostra professione è tutta da riconquistare e non lo faremo grazie all’ottimistico sfoggio dei nostri paramenti ma soltanto in seguito ad una rifondazione sostanziale, coraggiosa, di buon senso, a partire dalle piccole azioni, a cominciare da ognuno di noi. È arrivato il momento di rimeditare il nostro frainteso concetto di decoro ed il primo passo sarà quello di smetterla di adagiarci sui simulacri, per andare alla sostanza delle cose. Perché, in mancanza, presto sarà davvero la fine dell’Avvocatura e quella toga potremo riporla, con inutile orgoglio, assieme ai libri dell’università.