Costringere Luigi Di Maio a riaccoglierlo a braccia aperte, con tanto di scuse e «bentornato a casa». Ecco la mission che Gianluigi Paragone si è dato, da quando il collegio dei giudici del Movimento ha formalizzato la cacciata del «rompicoglioni», come il senatore ribelle si definisce. «Io da qui non mi muovo, resto incollato al mio scranno di Palazzo Madama, dovranno buttarmi fuori con la forza», è il ritornello con cui l’ex direttore della Padania ed ex conduttore televisivo respinge il benservito e prepara le carte bollate. Al mattino registra un video in cui gesticola, batte i pugni nell’aria e rimarca come una furia le parole: «Cari falsi probiviri, cari uomini del nulla, voi avete paura di me perché io ho quel coraggio che voi non avete più. Contro la meschinità del vostro arbitrio mi appellerò». Alessandro Di Battista – il carismatico leader dell’ala più movimentista dei Cinque stelle – non ha usato mezzi termini ieri sul suo profilo Facebook: «Paragone è più grillino di tanti». Non è quasi più una notizia la progressiva frantumazione del Movimento Cinque Stelle. Nel senso che ormai appare irreversibile e la questione semmai riguarda i tempi e i modi. Tuttavia l’addio, volontario o forzato poco importa, di Fioramonti prima e Paragone subito dopo introduce un elemento interessante: i due se ne vanno insieme, ma in direzioni diverse. Entrambi denunciano lo snaturarsi irrimediabile dei 5S, ma sembrano trarne conclusioni differenti. Giuseppe Conte è diviso tra vanità e pragmatismo. Conte è uomo che non rinuncia al realismo e, seppur con ironia, si è lasciato andare a una battuta che dice molto del quadro sempre più frammentario che incornicia il suo governo all’alba del nuovo anno. Si fa dire di quanti partiti si componeva la ormai mitologica coalizione del governo di Romano Prodi nel 2006 e scherza: «Quanti? Dieci? Se andiamo avanti così rischio di raggiungerlo e di superarlo».