Dall’inizio della diffusione di notizie su questa pandemia mondiale battezzata coronavirus, sono restata colpita da due cose: la morte solitaria degli anziani ricoverati in terapia intensiva, lontani dai propri cari e senza neanche un funerale per piangerli e la sorte dei senza tetto, lasciati ancora più soli laddove per tutti c’è l’ordine di “restare a casa” e loro una casa non ce l’hanno.
Da questi pensieri è germogliato nella mia fantasia, crescendo lentamente, prendendo forma, il racconto che pubblico. Una specie di favola con un principe non proprio azzurro, però con un filo di speranza dentro: che l’energia positiva ritorni su chi l’ha generata.
Il padre.
Luisa per tante ragioni che neanche avrebbe saputo spiegare, era restata a vivere con i genitori.
La madre, ammalatasi presto di Alzheimer, non l’aveva perduta fisicamente presto. Di fatto però l’aveva perduta come amica, presenza vigile, scambio di opinioni, sorriso di riconoscenza.
Lei doveva andare al lavoro: segretaria in un importante studio di avvocati. Era la sua vita “sociale”, il suo apporto economico in famiglia e un tempo aveva anche rappresentato una storia sentimentale. Sbagliata. Malata. Non corrisposta, forse.
Giulio, l’avvocato con cui l’aveva condivisa, aveva bisogno del suo apporto nel lavoro. La utilizzava persino per i regali alla moglie, che (a parere di lei), gli doveva fare comodo.
Altrimenti non si spiegava la sua volontà di non lasciarla, anche se si ostinava a dire che non voleva darle un dolore. Rari incontri in albergo ed altrettanto rare cene, rappresentavano la forza del loro rapporto. In ultimo si era scusato per il poco tempo a disposizione nascondendosi (lei pensava), dietro una malattia della moglie. Non si era inoltrato nei particolari, però lasciava intendere si trattasse di una forma leucemica molto grave. Così non si erano rivisti al di fuori delle ore nello studio.
Poi, per convenienza o altro, senza preavviso (almeno con lei), Giulio aveva sciolto il suo inserimento nella società dello studio ed era scomparso dalla sua vita. Partito, forse.
Aveva indagato, giusto per scoprire che il numero di cellulare non esisteva più, così come quello del telefono di casa.
Chiedere ai colleghi? Da prima le parve troppo “scoperto”, quindi inutile. Insomma: era chiaro che lui doveva avere deciso di chiudere con il passato lavorativo e lei rientrava in quel passato.
Non fece capire il turbamento in casa, però proprio in quel periodo si rese conto della malattia della madre:
Cominciò qualche giorno prima del compleanno del padre: compiva settantacinque anni e di solito la madre (si chiamava Adele), dal mattino si metteva all’opera per fare una torta in casa. Svegliava il marito (Lucio), con il caffè e gli cantava una canzoncina di auguri. Il loro era stato un felice matrimonio d’amore, rattristato, purtroppo, dalla morte del loro primo figlio a causa di una malattia feroce, nell’infanzia.
Marco. Si chiamava così il piccolo.
Dunque, quel giorno (che lei aveva preso libero dal lavoro, come sempre), Adele si alzò, entrò in cucina un po’ in ritardo e, con un’espressione del tutto naturale chiese: “Dov’è andato Marco? Sono preoccupata. Non lo trovo.”
Inutile dire che lei, dapprima, non aveva capito.
– “Marco? Quale Marco?”-
Al che la signora Adele, stranita, sembrava essersi resa conto di avere “straparlato”. Poi era uscita dalla cucina.
Niente torta quel giorno, niente auguri al marito. Silenzio e quella sua aria che già da mesi, a pensarci, sembrava avere stabilmente sul volto: vuota.
“Compro io la torta per papà? Non hai voglia di farla?”
-“La torta? Sì. -frammento di ricordo- il compleanno di papà? Sì.”
Non volle indagare oltre, scese e comprò la torta. Svegliò lei il padre facendogli gli auguri e lui: “Mamma?”-
“Dentro.”
Fu l’inizio di un lungo periodo in cui “le assenze” aumentarono e con esse la perdita di memoria della signora Adele: sparite le notizie apprese di recente, dimenticate le date, anche quelle del giorno che si viveva e quindi la memoria degli eventi importanti, tra cui la morte del figlio.
Il: “Che giorno è?” Divenne un rituale, più volte al giorno, così come il non lavarsi i denti o il viso, la ricerca senza fine del vestito da indossare e lo sguardo sempre più perplesso all’orologio o alle cose solite intorno.
Ci volle poco ad avere la diagnosi e ci volle molto ad accettarla.
Però, sia lei che il padre, senza neanche mettersi d’accordo, presero ad accudirla a turno.
Poi un giorno, sparì.
Il padre era andato al bar e lei, dalla cucina, ebbe il sospetto che qualcosa non andasse per il verso giusto. Il silenzio?
La porta di casa aperta, La corsa per le stanze, il prendere un giaccone, la borsa e il cellulare ed era già per strada.
Poche centinaia di metri in là c’era un giardinetto con le panchine e la trovò.
Chiacchierava tranquillamente con un uomo. Chiaramente un “senza tetto”. Lo capì dal carrello che si portava dietro, gli abiti dismessi, il volto affilato e con la lunga barba.
Si avvicinò e chiamò: “Mamma?”-
Eccola, con un attimo di comprensione lei si girò.
“L’ho fermata: rischiava di finire sotto un’auto. Non sapevo chi fosse, dove rimandarla. Cercava Marco.”
Ringraziò l’uomo, che si presentò come Roberto e la riportò a casa.
Accadde ancora due volte, più o meno la stessa scenetta, finché lei si ritrovò a chiacchierare con questo sconosciuto e, quindi, a chiedere in giro chi fosse.
Restò stupita: era stato un medico. Un pediatra chirurgo cui era morta una paziente per un suo errore in sala operatoria. Forse aveva bevuto o chissà cosa. Si diceva che avesse lasciato tutto, anche la casa dove abitava con un figlio (vedovo lui, scapolo il figlio) e non vi era più tornato.
Strane storie.
Intanto negli anni la madre si era aggravata e il padre, sempre più anziano, mal sopportava di restare sveglio nei turni, per seguirla a turno con lei.
Infine era morta.
La sua vita aveva ripreso un poco di colore ed aveva assunto quasi il tono della normalità, finché, verso gennaio, non aveva cominciato a sentire parlare di una nuova influenza, più pericolosa delle altre.
Vivevano a Bergamo e in un tempo che al ricordo le sembrò brevissimo si giunse a quell’oramai conosciuto 21 febbraio in cui ci si rese conto che esisteva un virus nuovo, proveniente dalla Cina, che stava invadendo l’Italia a partire dal nord.
Non ci volle molto e i numeri degli ammalati e dei morti nella sua città e in provincia cominciarono a crescere. A metà marzo erano da paura.
Ascoltavano terrorizzati, come se fosse un incubo le notizie dei telegiornale: – “La provincia di Bergamo, che conta 1 milione e 108 mila abitanti in 243 comuni, è quella che in Lombardia sta pagando il prezzo più alto dell’emergenza Covid19.” –
“Si toccano i tremila casi di persone positive al coronavirus, di cui 261 decedute.”
Bastò poco e gli ospedali giunsero al collasso. Ne parlava in continuazione l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera asserendo che a “Bergamo e Brescia gli ospedali hanno esaurito fisicamente la capacità di accoglienza”.
Luisa ebbe davvero coscienza che il padre fosse a rischio più di lei: era anziano, soffriva di alcuni acciacchi dell’età ed era maschio. Sentiva dire che le donne, in percentuale, avessero meno probabilità di ammalarsi, inoltre lo studio era stato chiuso e lei svolgeva le poche pratiche restate attive e in sospeso, da casa, con il telelavoro.
Ogni sera erano storie:
-“Papà, non devi scendere al bar. Lo so che è chiuso ed entri per la porta che sta nel palazzo, ma siete comunque a rischio tu ed i tuoi amici!”
Lui brontolava qualcosa e neanche la ascoltava,
Intanto, uscendo per fare la spesa, annotava la presenza di Roberto, che, non avendo casa, cercava di passare inosservato, però pativa il freddo e forse anche la fame.
Lei gli portava un pasto caldo, di tanto in tanto.
Gli diede un vecchio sacco a pelo del padre. Gli portò qualche mascherina, benché procurarsele non fosse la cosa più facile.
Passarono i giorni e, purtroppo, una notte si rese conto che suo padre tossiva.
-“Non è nulla.” Asserì lui drasticamente. Sbagliato: un paio di giorni dopo gli scoppiò un febbrone. Si sentì perduta. Le indicazioni erano di chiamare il medico di famiglia. Lo fece. Lui le suggerì, sentendo i sintomi, di rivolgersi all’ospedale. Onestamente arrivò persino a recarsi a casa. Aveva una mascherina che lei stessa valutò come ridicola, per cui lo tenne a distanza dal padre.
Si comprendeva che i sintomi c’erano tutti per ritenerlo un caso di coronavirus e il più grave era la respirazione. Fu lo stesso medico a chiamare un’ambulanza attrezzata perché lo portassero in ospedale, però il suo sguardo non raccontava nulla di buono. Sapeva che gli infermieri coperti da capo a piedi per proteggersi, non le avrebbero permesso di seguirlo nel ricovero. Per di più le fecero un tampone e, un paio di giorni dopo ebbe due notizie: il padre era morto malgrado le cure e lei non aveva il coronavirus, tuttavia avrebbe dovuto restare in quarantena, per sicurezza.
Con la madre aveva avuto modo di piangerla, seguire un feretro, benedire una salma in chiesa. Anche se, praticamente sola. Non aveva parenti.
Il padre lo ricordò per un ultimo sguardo triste e sperduto, mentre lo portavano via e seppe che le avrebbero restituito soltanto il cellulare. Il resto andava bruciato. Come fecero con la sua salma. In seguito avrebbe saputo dove erano state conservate le ceneri.
Un mondo da fine del mondo. La casa vuota e silenziosa, neanche un cane cui appigliarsi.
Le prese un’ansia che le toglieva il respiro.
Guardò nel frigo e nel freezer per rendersi conto che, in quanto a cibo, sarebbe durata al massimo tre giorni. Finito o quasi il caffè, per non parlare di fette biscottate e latte. Meno male che non fumava.
Un paio di sere fece qualcosa che non era nelle sue abitudini: bevve del cognac, quello conservato per gli ospiti. Lo finì tutto.
La mattina successiva si affacciò al balcone e si mise a scrutare intorno. Si trovava in una zona periferica e per di più le strade erano più solitarie del solito a causa del lockdown.
Non ascoltava più l’eterno ritornello delle varie TV che parlavano del virus: oramai non poteva toglierle più nulla.
Prese il binocolo del padre e scrutò con quello verso i giardinetti e lo vide: l’uomo si era accovacciato su di una panchina. Freddo non doveva avere, però fame sì.
All’improvviso le venne in mente un pensiero. Prima di averlo bene associato alla logica, presa soltanto la borsa con le chiavi, scese in strada.
Roberto, il dottor Roberto, aveva proprio l’aria di non poterne più. Sembrava dormire. Gli diede uno scossone delicato e udì la propria voce dire: – “Si alzi e mi segua” – Forse a causa del fatto che avesse fame e fosse disperato, lui neanche le chiese dove, o il perché, semplicemente la seguì.
Dieci minuti dopo era a casa sua.
Quasi non gli parlò. Neanche si chiese se fosse portatore del virus o fosse ammalato. Lo spinse verso il bagno e chiarì: “Lei puzza. Ha bisogno di una doccia. Può usare gli asciugamani e l’accappatoio di mio padre. Sono puliti.”
Andò nell’armadio del padre, laddove alcuni abiti e altro non veniva usato da mesi (arrivava la primavera), quindi mise tutto il cambio fuori la porta, sul tavolino del telefono.
“Si cambi! Il necessario è fuori la porta! Giacché c’è si faccia anche la barba!” Gli urlò da dietro il vetro.
Sentì la doccia scorrere.
Andò in cucina e preparò qualcosa per il pranzo, o la cena che fosse.
Stava scolando la pasta per condirla, quando Roberto entrò. Sembrava un altro. Certamente doveva avere i suoi anni, forse un po’ meno di quelli di suo padre, tuttavia si riconosceva l’eleganza dei movimenti di un uomo che aveva conosciuto tempi migliori.
Non si parlarono molto: sedettero al tavolo come lei avrebbe fatto con il padre. Semplicemente lei costatò: “Da oggi vivrete qui. Quando tutto sarà passato potrete decidere se tornare a casa o in strada, oppure restare. Per me non ha importanza. In casa sono sola e sarà meglio non vi facciate vedere al balcone: mio padre è morto.”
Lui fece cenno di sì e si gettò affamato sulla pasta al sugo.
Passarono alcuni mesi.
Come capita per tutte le cose umane anche la parte più dura della pandemia andò scemando.
Si erano fatti compagnia, pure se ciascuno un po’ mantenendosi come per un tacito accordo, a distanza. Non per il virus, piuttosto per rispettare i pensieri dell’altro.
Lei lavorando a computer e seguendo le notizie in TV (lui guardava alle spalle), Roberto divorando tutti i libri della biblioteca del padre. Un poco alla volta, dormendo nella stanza di lui, prese a mettere in ordine il guardaroba. Lavava i propri panni, teneva in ordine i bagni e la cucina.
Lei scendeva a fare la spesa sotto casa, quasi di nascosto, aspettando il momento in cui il supermercato si svuotasse della fila che si formava fuori.
Verso agosto faceva un gran caldo.
Finestre e balconi aperti e aria condizionata a tutto spiano. Lo vide pensieroso.
“Roberto -gli disse- so che eravate medico, anzi, lo siete. So che abitavate con vostro figlio, scapolo…”
Lui precisò: “No. Era sposato. La moglie stava molto male. Penso sia morta.”
“Allora una ragione di più per chiamarlo a telefono, dirgli che siete vivo e poi decidere se volete ritornare a vivere con lui. In strada no: se c’è un Dio vi ha perdonato ed è ora che vi perdoniate anche voi.”
Parve riflettere. Poi acconsentì.
-“Posso usare il vostro cellulare? Ho più possibilità di rintracciarlo che a casa. Potrebbe essere in vacanza. Benché ne dubiti.”
Lei glielo passò e si allontanò discretamente.
Al ritorno le parve sollevato. Per la prima volta da mesi si sentì bene: non aveva potuto aiutare il suo, di padre, comunque aveva almeno salvato il padre di un altro.
“Che dice suo figlio? Gli ha parlato?”
“Sì. Non ci credeva fossi io! Come avevo immaginato, la moglie è morta mesi fa. Vive da solo. Ha ripreso da poco la sua professione di avvocato. Gli ho dato l’indirizzo che lei mi ha dato e ha detto una cosa strana: lo conosco.”
Luisa restò perplessa, però felice per lui.
“Quindi viene? Bene! Se vuole può portarsi le cose che ha utilizzato. Tanto… a mio padre non servono più. So che lei ritroverà, forse, le sue, però mi farebbe piacere. Quando viene a prenderla?”
“Penso arriverà a breve. Aveva proprio fretta. Gli ho parlato di lei, della sua gentilezza. Vorrà ringraziarla!”
-“Ne sono lieta, davvero. Pare siamo fuori in qualche modo dal momento più critico, però mi sa che l’Italia sarà più povera che nel dopo guerra…”
– “Certamente. Comunque io potrò aiutare mio figlio: la mia pensione sarà stata versata in banca da mesi. Pur sempre qualcosa!” – Poi sentirono entrambi il rumore dell’ascensore che si fermava al piano.
“Deve essere lui!” Disse Roberto.
Si recarono assieme alla porta e lei l’apri per restare sbalordita a fissare l’uomo che aveva bussato.
“Luisa!” Disse lui guardandola come ipnotizzato, quasi con le lacrime agli occhi.
Era Giulio. Il suo amore scomparso nel nulla.
Bianca Fasano.