Si affacciò al balcone e guardò fuori. Alle sue spalle gli ambienti della casa divisa, avevano assunto aspetti diversi in cerca di soluzione. Forse era l’ultima volta che guardava giù verso la Chiesa dove aveva fatto la sua prima comunione e accompagnato per i saluti ultimi, tante persone care.
Poi il ricordo la travolse: una botta, venuta da chissà dove, era finita contro l’orologio a forma di gallo della casa di suo fratello.
Il cielo scuro, pieno del fumo dei botti si colorava all’improvviso di cento colori ed il rumore, assordante, di un 31 di dicembre invadeva le stanze alle sue spalle.
Sparò un tappo di champagne, le voci dei presenti gridarono, auguri, auguri!
Nessun cellulare fu messo in moto per spedire auguri di fine d’anno. Squillò il telefono, in casa. Qualcuno rispose.
Le voci dei bambini e dei ragazzi riempirono le stanze… alle sue spalle.
Si girò. Il muro, vuoto, rattoppato, la ribaltò nel presente. Le stanze violate da nuove mura, tagliate da nuove porte.
Si usciva al mattino del 31, per andare a Pozzuoli, al mercato del pesce. Capitano della spedizione il fratello, che amava la pesca in alto mare, le feste allegre, l’aria familiare dei suoi convitti natalizi e in quel paese era direttore di una banca locale.
Girava, con sicurezza, tra i pescatori che offrivano la merce. Lei si commuoveva nel vedere polpi giganti agitarsi inquieti nell’acqua bassa di un secchio e cangiare di colore, attorcigliando i tentacoli. Osservava le mani del fratello che afferravano aragoste rosse, astici bruni (che sarebbero divenuti rossi in cottura) con le chele fermate da elastici, venuti da chissà quali mari per morire, vittime sacrificali, la notte di capodanno.
Le anguille e i capitoni si avvinghiavano tra di loro nei recipienti rotondi di legno.
Tutta quella vita destinata a morire le metteva tristezza. Amava troppo la vita per apprezzare la morte, fosse anche trasformata in un piatto saporito.
Ma era per la notte di capodanno: sulla tavola, grande, quadrata, dal piano di vetro, non sarebbe mancato nulla: antipasti gustosi, vini bianchi freddi e pregiati, mensa imbandita con piatti dipinti, bicchieri di tutte le forme e misure e, prima di tutto, tanta allegria intorno. Bambini, ragazzi ed adulti della stessa famiglia riunita in un tempo sereno così difficile da ottenersi, oggi.
La stanza del soggiorno sembrava più grande, senza l’enorme libreria che aveva fatto da sfondo alle tante giornate passate tra quelle mura.
Sparite le vetrine colme di oggetti, le mensole, vuote, dimenticate, non esponevano più porcellane delicate.
Tutto aveva trovato altri spazi in una sorta di diaspora avvenuta stanza per stanza, metodicamente.
L’incardellato bianco non allietava più coi suoi canti il piano della grande finestra. Non faceva più compagnia al padrone, che l’osservava dalla poltrona, percependo il significato di ogni movimento. Aveva sete, o fame, oppure voleva che gli si cambiasse l’acqua della vaschetta, per il bagno.
Quanti canari incardellati erano nati tra le mura della cucina? Seguiti, curati. Il più vecchio dei cardellini, che forse, nato libero, aveva dimenticato anche l’odore dei boschi di Capodimonte, agguerrito, difendeva con il canto ed il becco minaccioso la sua piccola gabbia.
Metodicamente: ogni enorme mobile venne smontato e “(…)ognuno taglia. A sera ognuno col suo grave fascio va.”
Quanto lasciava gli ambienti della grande casa del vomero trovava sistemazione in altri luoghi. Riutilizzato, portando con sé l’impronta di oggetti, di mani, di libri.
Anche i libri trovarono le loro strade, con il marchio della scelta che li contraddistingueva per l’interesse.
Giorni e giorni di andirivieni di persone che della casa non conoscevano la storia, per smontare gli enormi armadi alti fino al soffitto.
La casa si era svuotata così. Vuota anche delle voci allegre e sommesse, dei ricordi belli e brutti, della personalità di coloro che vi avevano abitato o che anche vi erano passati per ore, o giorni, di permanenza.
“La carrozza” di porcellana tardava ad andare via, assieme a pacchi scomposti, ancora da comporre ed altri, già in attesa nell’ingresso.
Altri avrebbero preso il posto in quelle stanze, divise. Altri si sarebbero affacciati ai balconi, avrebbero inserito mobili, ed oggetti, libri e sogni. Altri.
Lei salutò in silenzio un uomo su di una poltrona, che chissà dov’era adesso. Si augurò che fosse in mare, su di una eterna barca da pesca a trarre con le mani, sul legno caldo di sole e bruciato dal sale, pesci guizzanti che mai morivano.