In un giorno imprecisato del maggio 2015, Michela, leggendo un po’ a caso le notizie degli avvenimenti sul suo computer portatile, si ritrovò colpita da una notizia che per qualche ragione la fece tornare indietro nel tempo:
– “Roma, è morto il fratello di Alfredino Rampi, stroncato da un infarto”.
Nel 1981 aveva circa trent’anni quando, l’11 di giugno, dovette recarsi dal dentista per una piccola operazione dentaria. Piccola poi non si rivelò, perché vi era stata coinvolta la radice e le insorse un violento mal di denti. Lontano dal luogo dove si trovava a vivere, la sera precedente, ossia il dieci, un bambino a lei sconosciuto (proprio Alfredino Rampi), uscito a fare una passeggiata in una campagna con il padre nei pressi di Roma rientrava, percorrendo i prati, da solo. Alle venti non era ritornato e un’ora dopo i genitori lo cercavano disperatamente. Alfredino, si scoprì poi, era purtroppo precipitato (si presupponeva incidentalmente) in un pozzo profondo circa 80 metri, da poco scavato in un terreno confinante al proprio, dove si stava costruendo una nuova abitazione. Quando, durante le ricerche, si scoprì cosa gli fosse accaduto, si allertarono le forze dell’ordine finché i tentativi per tirare fuori il bambino non divennero più complessi e verso le una di quella prima allucinante notte, diversi tecnici della Rai, avvertiti per questo scopo, collocarono una telecamera nelle adiacenze e fecero discendere nel lungo buco, che aveva carattere roccioso, un’elettrosonda a filo, allo scopo di permettere a quanti operavano per salvare il piccolo, di colloquiare con lui. Michela, alle prese con i suoi due figlioletti ed il dente da curare, seppe della cosa soltanto la mattina dell’undici, cominciando a seguire, tra una faccenda e l’altra, lo svolgersi degli eventi. L’Italia intera, poi comprese, era davanti alla televisione per una diretta Rai che sarebbe risultata purtroppo lunghissima quanto infruttuosa. Sempre l’Italia, distrattasi momentaneamente da altri avvenimenti, quali l’arresto in febbraio di Francesca Mambro e i fratelli Cristiano e Valerio[1] Fioravanti dei NAR, oppure, in marzo, la perquisizione della villa di Gelli, dove furono scoperte le liste della P2. Per non parlare, in aprile degli arresti di Mario Moretti e degli altri brigatisti rossi.
Mercoledì 13 maggio ci sarebbe stato, certamente fortemente mediatico, l’attentato al Papa e la strana morte di Rino Gaetano in giugno[2]. C’era di che distrarsi, no?
Tuttavia in quel giugno era giunta la circostanza di Alfredino Rampi e tutti dimenticarono altri eventi. Mettendo a letto i figli, verso le 21.30 dell’undici (il dente continuava a farle male nonostante l’antibiotico e gli antidolorifici e non le riusciva a dimenticarlo), seppe che si stava svolgendo un tentativo disperato di raggiungere il piccolino: Un certo Isidoro Mirabella si sarebbe calato per imbracarlo. Fu un nulla di fatto: poté parlare con il bambino, ma dovette tornare a mani vuote. In quel momento l’Italia viveva i suoi “soliti” momenti di difficoltà per il Governo, mentre l’On. Spadolini tentava di superare la crisi formando un nuovo Governo, ma l’attenzione di tutti sembrava rivolta soltanto ad Alfredino. Scavato un tunnel parallelo, purtroppo ci si rese conto che il bambino era scivolato molto più giù. I suoi, di piccoli, intanto erano andati a dormire e lei, mamma, aveva buttato giù per disperazione un altro antidolorifico, sedendosi poi sulla poltrona avanti al televisore: tanto, di dormire non se ne parlava proprio. Da madre, osservava quella povera donna, che non lasciava un momento lo spazio vicino alla buca, tentare di contattare il figliolo e disperarsi, sia quando ne udiva i lamenti, perché non era in grado di aiutarlo, che quando non li sentiva, pensandolo morto.
Ma la notte tra l’undici ed il dodici giugno passò senza un nulla di fatto e la mattina del dodici la televisione le rimandò le immagini di una folla ancora presente e più numerosa e del continuare delle trivellazioni. Trivellazioni che sentiva, purtroppo, ancora anche nel suo dente. Intanto il piccolo recluso si lamentava per il rumore provocato dalla trivella, che tuttavia lasciava qualche speranza.
Michela, trascinandosi il suo mal di denti, si dedicava, intanto, alle faccende di ogni giorno. La colazione per i figli, la preparazione del pranzo e l’orecchio teso a ciò che accadeva da un’altra parte del mondo. Mentre l’alano nero, di tanto in tanto, profittando della confusione entrava in cucina e cercava di agguantare qualcosa dal tavolo.
Intorno alla buca si era raccolta una grande folla, che certamente non era a vantaggio delle operazioni di salvataggio. Si era convinti che la profondità cui si trovava il bambino fosse di 32 metri e a ragione di ciò fu accelerato il raccordo orizzontale fra i due pozzi, con la convinzione di trovarsi, poi, a poca distanza da Alfredino il cui respiro, ore dopo, era notevolmente peggiorato.
Peggiorato, si disse la Michela del 2015, anche perché, come il fratello che sarebbe morto anni dopo d’infarto, aveva un problema serio al cuore, di cui avrebbe dovuto essere operato a settembre. Il suo si chiamava tetralogia di Fallot. Qualcosa di complicato, che capita raramente: tre persone su diecimila nati vivi. Nel 2015, inoltre, Michela si chiedeva, a distanza di anni, anche come ci fosse finito quel bambino in un pozzo così stretto, che, secondo il proprietario, avrebbe dovuto essere pure pesantemente chiuso. Nell’ottantasette lo riportava “La Repubblica”:
– “ROMA La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non é dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo, lasciano poco spazio a possibili errori (…) “.-
Michela torna con il ricordo all’ottantuno, ai figli che corrono verso la porta finestra che da sul giardino e al suo mal di denti che non accenna a finire. Nel pomeriggio giunse sul posto anche Pertini. Un nonno preoccupato, un amico affettuoso, ma anche il responsabile di essersi fatto trasportare da un elicottero che, con il suo atterraggio, poteva essere stata la causa dei tremori nel terreno per cui il piccolo era scivolato più giù (si disse poi). Piaceva a tutti, anche se senza nubi non doveva essere stata, la vita di quell’uomo. A pensarci bene quante fesserie compiute durante quel salvataggio! Un’Italia intera a riflettere sul come tirare fuori il piccolo e una strombolata dietro l’altra, prima fra tutte quella tavoletta calata all’inizio dell’impresa nel buco, su cui si pretendeva che il malcapitato si afferrasse, che invece era restata incastrata, complicando la situazione.
Era ancora giorno alto quando, dopo una serie di accadimenti che rimbalzavano dalla scena alla Rai, (ma s’intuiva che la disperazione andava crescendo), lo speleologo Claudio Aprile, provò ad introdursi dal cunicolo orizzontale rendendosi conto di non riuscire a passarvi. Intanto nella sua casa del Cilento la sua figliola più grande, tra una corsa in giardino e un’occhiata ai compiti estivi, prese a fare domande: la storia durava da ore, se non da giorni e la curiosità per l’interesse materno aveva reso attenta Fiammetta. Nel sentire che un bambino era sotto terra si era impressionata notevolmente e il padre, passato a chiedere alla moglie come stesse con il dente, preferì quindi portarla con sé. Male. Stava male. Si profilava sempre di più la necessità di tirarlo via, quel dentino scarognato, visto che non reagiva agli antibiotici.
Si fece notte. Di dormire neanche se ne parlava. Dalla poltrona, che era divenuto il su punto di riferimento, Michela assistette, poco dopo la mezzanotte tra il dodici ed il tredici giugno, al tentativo di un uomo magrissimo, giunto sul posto per dare una mano. Sardo di origine, viveva a Roma e si chiamava Angelo Licheri. In seguito si ritrovò di mezzo anche all’inchiesta fatta per scoprire se vi fosse dolo, dietro la morte del bambino. L’indagine, difatti, per cui il medico legale fu chiamato a controllare la salma (che era stata fatta congelare, assieme al terreno che la stringeva), portò alla scoperta che sotto la maglietta a righe colorate, a partire dalla pancia, ci fosse una lunga fettuccia, sullo stile di quelle usate per trasportare gli zaini, divisa in due segmenti uniti con un anello metallico molto largo. Il Licheri affermò che fosse stato lui ad avvolgere con quella fettuccia il corpo del bambino, ma poi fu smentito. D’altra parte pareva strano, visto che passava anche sotto il braccio rimasto incastrato. Fatto sta che al tempo si fece calare nel pozzo artesiano per tutti i sessanta i metri che lo separavano dal bambino e rimase a testa in giù ben quarantacinque minuti, contro i venticinque considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione. Tuttavia, tra un tentativo e l’altro, dovette tornare in superficie senza Alfredino. In quel momento, tenendosi una mano sul lato sinistro del volto, Michela giunse a due convinzioni. La prima, più tragica, che per il piccolo non ci fossero speranze, la seconda, meno tragica, che non ve ne fossero neanche per il suo premolare.
Senza speranze di sonno, verso le cinque del mattino si fece una camomilla e lauro per consolarsi, tenendo d’occhio la tele che rimandava il tentativo di un altro speleologo, Donato Caruso. Nonostante il caldo di giugno, provò a porsi la tazza bollente vicino al lato dolorante del volto e si disse che avrebbe volentieri sofferto un altro paio di giorni, se questo avesse potuto permettere all’uomo di tornare su con il fardello ancora in vita. Chiudendo gli occhi le parve quasi di essere lei in quel budello fangoso e di potere essere d’aiuto a chi ci si stava calando, con la forza della mente. Ma, quale forza, se non le riusciva neanche di guarire un premolare? Niente da fare. Minuti che scivolavano con il contagocce verso l’alba, il sole che sorgeva sulle campagne intorno e anche su quel maledetto terreno, che aveva inghiottito un fanciullo e dopo la voce del giornalista che tentava di spiegare all’Italia, intera cosa stesse accadendo:
–“Caruso risale, no, chiede che lo tirino fino al cunicolo di collegamento. Pare voglia tornare giù e ritentare l’impresa. Vorrà soltanto riprendere fiato. L’emozione è forte… “-
“Gesù!”- Pensò Michela irritata: -“Sembra stia commentando un incontro di calcio!”
Ma il poveruomo sotto terra non voleva arrendersi. Evidentemente si era reso pienamente conto che, se non ce l’avesse fatta lui, il ragazzino ci avrebbe lasciato la pelle in quel budello. Il giornalista spiegò che forse avrebbe tentato con delle manette, procedimento molto più azzardato anche per il soccorritore per la ragione che queste erano legate alla sua stessa corda di sicurezza. Nessuno si stupì però quando, risalì da solo e, con grande tristezza, precisò che il povero Alfredino, a suo parere, era morto.
Che dire? Si era fatto mattino, da molte ore non dormiva e neanche ci sarebbe riuscita quest’altra notte, se non si fosse decisa a farsi tirare il suo disgraziato premolare.
Un risultato desolante in tutti i sensi e la voglia di sperare ancora, quando speranza non ve n’era più.
Il cadavere del bambino, cui sarebbero state legate successive favole, leggende, verità nascoste e terribili sospetti, sarebbe poi stato recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l’undici luglio, ovvero ventotto giorni dopo la morte del bambino, in una palla di terra e ghiaccio, giacché Il pm Giancarlo Armati, dopo la dichiarazione di morte presunta, aveva prudentemente fatto immettere nel cunicolo gas refrigeranti, allo scopo di permetterne l’autopsia. Verso le nove di quel mattino del 13 giugno la mammina del Cilento, triste e dolorante si recò dal dentista, che abitava poco lontano e gli disse:- “Levatemi questo maledetto dente”. Dopo l’anestesia passò il dolore.
[1] Dopo sei sentenze della Corte d’Assise d’Appello fu condannato, complessivamente, a 8 ergastoli, 134 anni e 8 mesi di reclusione, tuttavia,come spesso avviene in Italia, Nel mese di aprile del 2009, dopo 26 scontati dietro le sbarre e a cinque anni dal conseguimento della libertà vigilata, è tornato ad essere un uomo libero la cui pena è considerata definitivamente estinta (!).