Di Bianca Fasano.
Il mare di Pioppi, quel giorno, appariva mosso. Il gruppetto di giovani, arrampicati sugli scogli, sembrava ben adatto a muoversi comunque con assoluta disinvoltura: le mascherine sul volto, si tuffavano dai punti più alti, insinuandosi, fuori vista, in cerca di polpi e di ricci di mare. Erano maschi e femmine sui sedici, diciotto anni.
Una ragazzina bionda faceva incetta degli spinosi animaletti, salvandosi dalle punture con le scarpette di gomma. La rete che li conteneva mostrava il contenuto che si agitava, tra il colore bruno e il rossiccio.
Un ragazzo scurissimo di pelle, con il costume arricciato sui fianchi per liberare meglio le cosce, con un coltellino corto, ne apriva alcuni, mangiandone la parte commestibile, per poi gettare il resto in mare, mettendo a rischio i piedi di chi non usava sandali di gomma.
Altri corpi snelli o più grassottelli spuntavano a tratti dalle onde schiumose.
Giusy, quella fine estate, era diventata di un bel color bronzo. Ben differente il colore di Francesco, che si riparava dal sole sotto un ombrellone. La pelle, malgrado l’abbondante dose di protezione solare -la più forte- era color gambero. Qualche ciuffo biondissimo di capelli, anzi, più che biondo, bianco, spuntava da sotto il cappellino a visiera. Gli occhi, di un azzurro che litigava con quello del cielo, erano comunque ombrosi. Si guardava intorno, evidentemente a disagio, mentre gli altri del gruppo, ragazze e ragazzi evidentemente a loro agio, saltellavano sugli scogli, si tuffavano, infilzavano sotto l’acqua polpi di piccole dimensioni, inseguendoli e punzecchiandoli fino alla resa.
Francesco si era più volte bagnato, per non soffrire il caldo. Nuotare, per lui, era un gioco felice, in piscina, o durante le ore in cui il sole calava determinatamente all’orizzonte, ma non poteva mostrarsi come gli altri al sole, pena scottature violente. Fissava apertamente Giusy, chiunque poteva rendersene conto: per lei aveva una vera e propria passione. Tanto da seguirla su quegli scogli, scendere per le rocce che portavano al mare, sotto il calore accecante e restarsene lì come un povero gambero che si trovasse fuori del proprio guscio.
Si era portato un libro di Ernest Hemingway: For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana). In inglese. La sua fotofobia poteva comunque essere ridotta impiegando normali occhiali da sole. I suoi erano ottimi e gli permettevano anche di leggere, protetto dall’ombrellone che si tirava dietro come avrebbe fatto una lumaca con il suo guscio. Difatti: volendo vivere l’estate assieme al gruppo di amici, doveva comunque proteggersi dal sole e cercare, anche, di passare il tempo, mentre gli altri si divertivano in tutti i modi legittimi che si potevano trovare in estate. Studiava l’inglese, perché sognava di andare a vivere in Inghilterra, laddove, pensava, il colorito pallido, gli occhi glabri ed i capelli chiari, avrebbero potuto passare quasi inosservati.
Intanto seguiva le evoluzioni della ragazza sugli scogli. Era un maschiaccio: bruna di pelle anche d’inverno, con i capelli ricci che splendevano di ombre blu e gli occhi grandi e scuri, rappresentava il suo esatto contrario. Forse proprio per questo, l’attirava. Ma non accadeva il contrario. Giusy ammirava Giovanni. Alto, robusto, con i capelli di un castano rossiccio, che teneva legati in una codina che non diminuiva la sua aria di maschio, non era certamente bravo come Francesco, a nuoto. Ma non aveva paura del sole e questo lo rendeva più vicino a Giusy nelle giornate al mare. Il romanzo gli piaceva, così ricco d’amore, di disperazione e di sesso, così senza possibilità di soluzione positiva, lo faceva sentire partecipe del dolore dei protagonisti. Tuttavia di tanto in tanto lanciava occhiate preoccupate verso Giusy, che gli sembrava troppo poco attenta al pericolo. La testina bruna fuoriusciva a tratti dalle acque, mentre le onde sembravano sopraffarla. Poi il suo corpo aggrediva uno scoglio, ponendosi in salvo. Ma, nella sua ricerca, sembrava perdere ogni contatto con il gruppo. Si allontanava sempre di più e ogni volta che scompariva sotto l’acqua grigia e bianca Francesco si ritrovava più preoccupato. Misurava la distanza tra lui e lei, chiedendosi in quanto tempo avrebbe potuto raggiungerla, se fosse stata in pericolo.
Un attimo: abbassò lo sguardo sulla pagina che appariva marrone per le lenti degli occhiali e quando lo rialzò, dopo una pagina, non gli riuscì più di vederla. Attese qualche istante, fissando l’ultimo scoglio laddove la ragazza era scomparsa: nulla. Divenne ansioso. Si rialzò, gettando di lato il libro e guardò ancora nella direzione di lei: nulla. Pur comprendendo di correre il rischio che i suoi timori fossero inutili e si mostrasse ridicolo, uscì allo scoperto sotto il blando sole della giornata nuvolosa e si lanciò verso il mare. Si aspettava, da un istante all’altro, che lei riapparisse e la sua corsa divenisse inutile, goffa. Ma lei non comparve. I primi scogli bassi, le rocce, urtarono contro i suoi piedi, mentre fissava l’ultimo scoglio dove l’aveva vista infilarsi in acqua. Il cuore gli batteva all’impazzata, il tempo gli sembrava essersi bloccato, ma sapeva bene che non era così: per lei, se si trovava davvero sott’acqua, con la mascherina senza respiratore, ogni minuto poteva essere fatale. I suoi muscoli allenati in piscina ubbidivano veloci. Le ore passate a fare esercizio in palestra servirono a che superasse di slancio gli scogli, fino a raggiungere l’ultimo dove lei era scomparsa. Senza mascherina, si tuffò ad occhi aperti, disperato, guardandosi intorno nell’acqua melmosa. Era terrorizzato. Quei momenti passati sott’acqua poté affrontarli per l’abitudine a farlo in piscina. La vide. Era ferma, insinuata di sbieco dietro uno scoglio. Da un lato del capo fluiva come un filo rosso e comprese che si trattava di sangue. Doveva essere urtata violentemente contro una roccia a seguito di un’onda più forte. Raggiunse quel capo per trarlo fuori dall’acqua, mentre il peso morto dell’amica gli fece credere che fosse inutile, che lei non svenuta ma finita senza respiro, l’avrebbe portata a riva come un cadavere.
Avrebbe urlato se avesse potuto. La condusse fuori, fece scivolare il corpo sul più vicino scoglio, la mise di fianco per fare sì che l’acqua fuoriuscisse dalla bocca, la scosse, poi, dopo averla girata col volto verso l’alto, le batté il petto ritmicamente con le mani unite: Poi di nuovo di fianco, per farle espellere l’acqua, mentre lei, finalmente, cominciava a tossire, agitandosi in modo dapprima senza senso, poi con maggiore logica. Tentava di mettersi seduta, tossiva, si passava una mano sul lato della fronte dove provava dolore. Ma, fortunatamente, il fiotto di sangue sembrava essersi bloccato.
-“La testa. Mi fa male la testa.”- Sussurrò.
-“Sì, dobbiamo, tornare a riva. Dobbiamo portarti all’ospedale. Da solo non ce la faccio, devi aiutarmi.”-
Lei parve accorgersi di lui all’improvviso:
-“Cosa ci fai qui?”- Chiese-
-“Ti ho visto scomparire e sono venuto a salvarti.”-
Rispose lui, semplicemente.
Finalmente da riva sembrò che gli altri del gruppo si fossero resi conto del pericolo corso dall’amica: cinque o sei ombre si agitavano, vicine tra loro, ma nessuno sembrava intenzionato a raggiungerli. Comunque, fortunatamente, era oramai inutile. Un po’ nuotando, un po’ arrampicandosi di scoglio in scoglio, i due giovani raggiunsero gli altri.
In pochi minuti, malgrado che il sole non sembrasse neanche esserci, la pelle di Francesco era divenuta di un bel rosso acceso. Lei se ne accorse:
-“Il sole ti fa male!”. Gli ricordò.
-“Fa nulla. Passerà.”-
Non era intenzionato a mollarla in quel momento. Lui l’aveva trovata, lui l’aveva salvata e lui l’avrebbe accompagnato al Pronto soccorso di Vallo della Lucania, con la sua auto. Anche a Giusy la cosa sembrò logica. La afferrò per mano e si allontanarono, risalendo verso la strada a picco sul mare. Fu faticoso. Lui portava le chiavi dell’auto nel pantaloncino che indossava. La fece sedere di fianco al posto di guida e mise in moto.
-“Grazie”- Disse Giusy, osservandolo attentamente, forse per la prima volta. Si accorse che era proprio un bel ragazzo, malgrado i capelli bianchi.
-“Fa male essere albino?”-
Gli chiese.
-“No. Ci sono nato e ci ho fatto l’abitudine”- Rispose lui sorridendo. Si rese conto che era proprio la verità.