La strategia di comunicazione dell’Accademia Imago, associazione artefice del Festival dell’Arte e del Benessere all’insegna dell’Arte che cura, è semplice ma assai efficace. Somiglia all’arte del navigare a vela, per bordi, sfruttando ogni refolo di vento. La rotta è stata fissata da tempo, dagli esordi della Scuola di specializzazione in psicoterapia, che risale agli anni Novanta. Ma lungo il percorso si arricchisce di contributi e variazioni frequenti al tema, tutti forieri di ulteriori sviluppi. Senza chiusure e rigidità, l’accesso alla aggregazione è aperto non solo agli specialisti di questo modello di psicoterapia che nasce dall’integrazione dello psicodramma di Moreno con la Psicanalisi, ma a sociologi, operatori culturali, artisti e a tuti coloro che si occupano attivamente di inclusione sociale. Ogni giro, insomma, porta a un’altra corsa, con compagni di viaggio sempre nuovi. Ne parliamo con il presidente Massimo Doriani.
Dottor Doriani, la quarta edizione del Festival che avete organizzato al Pan a fine dicembre è appena conclusa. Con quali riscontri?
Beh i numeri sono molto indicativi. Parliamo di una manifestazione, pervenuta alla quarta edizione, che ha allineato 15 workshop, 10 concorsi, 42 borse di studio. Siamo decisamente entusiasti dei risultati che devo dire erano inaspettati. Si tratta di trecentocinquanta partecipanti ai concorsi per le dieci sezioni, mentre noi puntavamo presuntivamente ad averne sessanta o settanta al massimo.
Completiamo il bilancio della rassegna. Quante persone hanno partecipato all’evento
In realtà la manifestazione è stata imperniata su più eventi. Nell’insieme abbiano sfiorato i mille partecipanti, sommando i partecipanti al vernissage dell’esposizione delle opere in concorso effettuato al Pan, alla tavola rotonda su arte e impresa presso il Circolo Ufficiali della Marina militare e la premiazione con Red Ronnie in qualità di testimonial a San Domenico Maggiore. Protagonisti della società napoletana come Vito Grassi, presidente dell’Unione industriali e di Confindustria Campania, Antonio Pirpian (manager comunicazione e brand di Optima Italia), Laura Valente (Museo Madrenapoli), di recente designata miglior presidente di museo nel 2019 da Artribune, l’assessore al Verde urbano del Comune di Napoli Luigi Felaco, hanno mostrato una significativa attenzione alle nostre attività. Cosa che ci ispira fiducia e ci induce a proseguire con il massimo impegno il nostro cammino.
E qual è la meta che si è posto?
Fare dell’arteterapia uno dei principali strumenti della lotta per l’inclusione sociale a Napoli e in Campania. Un contesto tra i più difficili per le marcate differenze sociali, la convivenza in uno ristretto spazio urbano di fasce agiate e sacche di povertà estrema, dove microdelinquenza di necessità e disagio giovanile si mescolano in una miscela esplosiva. Il nostro lavoro tende a far emergere i conflitti e a regolarli mediante una rimodulazione delle emozioni mediante percorsi che si snodano attraverso l’utilizzo di linguaggi e tecniche artistiche, e tra questi assume un ruolo particolare il corto cinematografico.
Quando nasce il suo approccio all’arteterapia?
Ho sempre avuto un interesse per l’arte in genere, ma l’inizio risale a più di una ventina di anni fa, quando nacque in me il desiderio di cimentarmi concretamente.
Ce ne parli, se vuole…
Provai a disegnare, una cosa mai fatta fino ad allora. E quando sorse la spinta, presi una fotografia un foglio da disegno e 5 matite di diversa durezza. Tracciai tante linee orizzontali e verticali in modo da dividere il foglio in quadretti e feci la stessa cosa sulla fotografia, in modo da riportare ogni quadretto fotografico sul foglio. Una vecchia tecnica molto semplice, molto in uso.
Con quale risultato?
Non solo viene fuori un disegno molto simile alla foto e con un’intensità espressiva incredibilmente realistica, ma ciò che realmente mi turbò fu l’espressione della bocca. Che non era presente nella foto ma era un’espressione mia che spesso assumevo guardandomi allo specchio.
Quello che in arte si chiama epifania, cioè magica e inspiegabile manifestazione improvvisa del perturbante?
All’epoca per me fu una magia, un segno di qualcosa che oggi saprei scientificamente spiegare, ma all’epoca mi sembro puro atto magico. Provai anche a farlo vedere ad esperti e alla fine mi ritrovai iscritto all’Accademia delle Belle Arti. Avevo sotto i quaranta anni. In seguito partecipai anche ad alcuni concorsi, ne vinsi un paio, esponendo non solo in Italia ma persino negli Stati Uniti.
E perché non ha provato a proseguire una carriera artistica che sembrava promettente?
In realtà mi stimolava di più proseguire e approfondire gli studi circa i processi creativi che si producono nella mente umana, nei sogni, la trasformazione del materiale grezzo inconscio, l’endocetto, che si trasforma in concetto, in prodotto artistico. Per un tratto tenni vivi i due filoni del pensiero scientifico e del lavoro artistico che proseguirono in percorsi paralleli. A un certo punto ho iniziato a sperimentato la fusione delle due direttrici che hanno come risultante l’arteterapia. Oggi una serie di recentissime leggi hanno strutturano tale incrocio in un vero e proprio titolo di studi riconosciuto, che consente di operare nel mondo psicologico e sociale.
Così nasce la scuola di formazione in Arteterapia, che dura?
Come un titolo universitario dura tre anni più due di specializzazione. Sì, la scuola che rilascia i due titoli ( base e magistrale) di artiterapie, si chiama “Arte che Cura”. Alla quale si affianca una scuola quinquennale (sempre 3+2) di counseling con l’ausilio di tecniche artistiche che abbiamo chiamato “incontrARTI”, oltre alla scuola di Specializzazione in psicoterapia con la psicoanalisi e lo psicodramma analitico (MIUR) “Mosaico Napoli”. E poi altre numerose attività dedicate a interventi di inclusione sociale finanziati, partecipazione a bandi pubblici di settore, interventi nelle scuole.
E così siamo giunti a questa quarta edizione dell’Arte che cura. Con quali prospettive per il 2020?
La più importante è connessa all’aspetto internazionale che intendiamo assegnare alla quinta edizione, che sarà ispirata all’idea della globalità delle Arti come fondamento di unione e fratellanza dei popoli.
Quindi possiamo archiviare la quarta edizione del Festival con un bilancio più che positivo?
E no. Non ancora. Perché c’è una appendice da considerare, una coda di programma: abbiamo deciso di svolgere una sorta di terzo tempo il 18 gennaio. Sarà un open day della scuola concepito per spiegare come funziona la didattica delle scuole e per assegnare una decina di premi agli assenti della premiazione del 21 dicembre. Insomma la quarta edizione si potrà archiviare quando presenteremo il catalogo delle opere esposte in un volume che è in corso di stampa, progettato in forma di Almanacco dell’Accademia Imago e dell’Arte che cura. Ma del resto chi ha stabilito che l’anno finisce il 31 dicembre.
E quando lo facciamo finire?
Quando voltiamo pagina nel nostro percorso interiore. Nel nostro caso, se proprio vogliamo imporre una data, diciamo il 21 marzo, equinozio di primavera. Ossia quando il mito permette a Proserpina di lasciare il regno dell’Ombra per tornare alle braccia della madre Demetra.