La legge 26 che istituisce il reddito di cittadinanza è sbagliata. All’articolo 2 comma 4, laddove si fissa la scala di equivalenza per calcolare quanto spetta a ciascuna famiglia, Camera e Senato hanno votato — e con tanto di fiducia — il 21 e 27 marzo un testo pasticciato. Tale da sovvertire le intenzioni dello stesso governo che in commissione Lavoro e Affari Sociali di Montecitorio il 14 marzo aveva fatto approvare modifiche per dare qualche soldo in più ai nuclei con disabili gravi o non autosufficienti. Il risultato è esilarante. Il testo — legge dello Stato dal 29 marzo, giorno della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale numero 75 — di fatto esclude dal sussidio i componenti maggiorenni diversi da chi ha fatto domanda di reddito. Riservandolo solo ai minori e appunto ai disabili. Un’assurdità da correggere in fretta. Non la sola, visto che il modulo di domanda riscritto dall’Inps il 2 aprile e messo online, dopo l’approvazione della legge per recepirne le novità, riporta curiosamente il beneficio economico come doveva essere. E non com’è, legge alla mano. Ecco dunque che la macchina del reddito di cittadinanza rischia un brusco stop. E l’Inps torna nella bufera, dopo il caso delle pensioni quota 100 accelerate a danno di quelle “normali”. Dovrà ritirare il modulo. Fermare le nuove richieste. E bloccare, fino a modifiche della norma incriminata, l’esame delle 854 mila domande arrivate sin qui. Entro il 15 aprile avrebbe dovuto decidere quante accettarne e quante respingerne. Oltre a comunicare agli interessati l’importo da erogare entro fine mese sulla card. Impossibile con la scala di equivalenza impazzita, diventata legge a dispetto di ogni intenzione. Il processo a questo punto si paralizza.
La fretta d’altro canto gioca brutti scherzi. L’obiettivo di distribuire i soldi prima delle elezioni europee ha impresso all’intera macchina del reddito di cittadinanza una velocità dannosa. E a un certo punto è scappato l’errore. In commissione alla Camera l’emendamento del governo “1.100” sembra arrivato integro. Poi nel passaggio all’aula è successo qualcosa. I deputati hanno votato le sole modifiche al testo. Le parti cioè di quel comma 4 dell’articolo 2 difformi e aggiuntive rispetto al decreto legge varato da Palazzo Chigi a fine gennaio, poi passato una prima volta al Senato senza grandi cambiamenti e giunto a Montecitorio il 28 febbraio. Ebbene chi ha scritto la versione poi approvata con voto di fiducia del comma 4 ha operato un taglio di troppo. E l’errore è passato liscio sia alla Camera che al Senato, quando il provvedimento è stato trasmesso il 21 marzo in seconda lettura, approvato il 27 marzo blindato anche qui dalla fiducia a pochi giorni dalla scadenza per la conversione in legge. Scattata poi il 29 marzo con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale.
fonte. La Repubblica