Perché tanta insistenza con lo studio di Giulia Colbert di Barolo, ma potrei farlo anche con altre importanti figure come Francesco Faa di Bruno, Leonardo Murialdo, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, ma anche per quelli meno conosciuti, che fanno parte della squadra dei “Santi sociali torinesi” dell’Ottocento, i tanti campioni, i giganti della carità che si sono adoperati concretamente senza abbracciare utopistici progetti per aiutare gli ultimi, i diseredati, i reietti della società, i proletari. In pratica, quelli che tutte le ideologie ottocentesche hanno cercato invano di promuovere. Giulia Colbert di Barolo ha risposto, forse più degli altri suoi contemporanei, alle innumerevoli miserie del suo tempo. Il cardinale Poupard nella prefazione al testo “Giulia Colbert di Barolo. Madre dei poveri”, edito da Libreria Editrice Vaticana (2007) lo scrive centrando il problema: “Giulia non si attarda in dotte analisi sociologiche ma si adopera per realizzare una serie impressionante di opere, profondamente incisive nella vita della città: ospedali, scuole, laboratori, artigiani, centri di accoglienza, asili infantili, oratori, tutti strumenti provvidenziali per un’autentica promozione umana abbinata alla evangelizzazione”. Infatti, continua il prelato, “ogni giorno, a Palazzo Barolo, si distribuivano aiuti ai disoccupati di ogni età – antesignano del sussidio di disoccupazione – ai malti, agli anziani soli, ex carcerati, ed ai più miserabili faceva arrivare anche la legna per riscaldare le case d’inverno”. Ecco questi sono fatti concreti, non parole, vuote promesse, di qualche pennivendolo costruttore di teorie più o meno irrealizzabili.
L’VIII capitolo (Il Rifugio [1823]) Mentre si occupava delle carcerate, la Marchesa di Barolo maturò l’idea di aprire una casa per giovani vittime della disoccupazione, dell’ignoranza e dell’egoismo. La Barolo durante i soggiorni a Parigi aveva avuto modo di conoscere l’opera dell’abate Legris-Duval, con alcune signore, questo religioso aveva fondato una casa per il recupero di ragazze a rischio. Giulia, pertanto, concepì un’istituzione simile. Anche per questo progetto Giulia incontrò diverse difficoltà, le resistenze dei famigliari e a volte critiche per uno zelo ritenuto eccessivo. Tuttavia, alla fine sorge nel quartiere Valdocco il “Rifugio”, un centro di educazione preventiva e riabilitativa per ex detenute e ragazze a rischio di devianza, chiamato così perché la Marchesa ha voluto porlo sotto la protezione di Maria SS.ma “Refugium peccatorum”. La zona per la Marchesa aveva una attrattiva particolare, pare che qui i santi martiri della Legione Tebea avessero subito il martirio e poi perché qui aveva operato il beato Sebastiano Valfrè. Così come per le Forzate, anche nel Rifugio il guadagno dei lavori delle ospiti per due terzi viene utilizzato per il mantenimento delle stesse e il restante terzo viene accantonato per il momento in cui lasceranno l’istituto.
Siccome il numero delle ragazze accolte al Rifugio aumentava velocemente, i marchesi hanno ingrandito l’edificio, finalizzato ad accogliere ragazze in difficoltà e di età inferiore ai quindici anni, per questo fu chiamato “il Rifugino”.
Nel 1838 ebbe contrasti con il governo perché alla morte del marito, si trovò di fronte all’obbligo di pagare una considerevole tassa di successione. A parte le questioni burocratiche Sia Il Rifugio che l’annesso Rifugino continuavano nella loro attività, contribuendo alla formazione di donne mature e responsabili. IL Pellico la definiva “una delle migliori istituzioni di Torino”. E’ importante sottolineare qualche regola della Marchesa: “aveva stabilito fin dall’inizio che le giovani potessero lasciare Il Rifugio soltanto quando avessero ritrovato sicurezza sufficiente ad affrontare onestamente la vita, fossero adeguatamente istruite e in grado di mantenersi lavorando”.
Siamo giunti alla fondazione delle Sorelle Penitenti di S. Maria Maddalena (1833), se parla nel IX capitolo. E’ l’opera più cara alla Barolo. E’ nata semplicemente come un bisogno quasi spontaneo. Il “Rifugio” divenne una formula vincente, oltre ad aver ricostruito moralmente quelle giovani donne, le catechesi di Giulia suscitò in alcune di esse il desiderio di una speciale consacrazione. Lo scopo era quello di riscattare il proprio passato e di impetrare la misericordia di Dio sul mondo mediante una vita di preghiera e di penitenza. Il 14 settembre 1833, il giorno dell’esaltazione della Croce, le prime quattro postulanti entrano in clausura. Cominciano le prime critiche dei “benpensanti”, si dà poco credito a suore che provengono dal carcere, da ambienti poveri e a rischio. E’ troppo farle vivere insieme una vita di preghiera e di penitenza.
A guidare i primi passi della nascente congregazione, furono chiamate due suore di San Giuseppe, madre Scolastica e poi madre Clemenza Bouchet, infine nel 1847 viene eletta la prima “Superiora”, fra le “Maddalene”, si tratta di suor Giulia Gerbi.
La figura a cui guardare secondo la Marchesa era Maria di Magdala, la fedele discepola di Gesù chiamata per prima ad annunciare la gioia della risurrezione.
Successivamente nacque un’altra opera, quella delle “Maddalenine”, si trattava di ragazze giovane ospitate dalle suore. Il regolamento che riguardava questo gruppo era dettagliato minuziosamente: “le maestre dovevano praticare costante vigilanza e usare fermezza nei rapporti, ma unita sempre alla ‘bontà dolcezza e zelo’”. Era una “sapienza pedagogica”, frutto dell’ascolto, del rispetto, dell’affetto e soprattutto della comunione con Dio espressa nella preghiera. La Barolo stessa seguiva le Maddalenine: le ascoltava, consigliava e rimproverava. “Studiava tutti i mezzi per guadagnare le figlie a poco a poco, entrando nei loro desideri e trovando il modo di appagarli nello stesso tempo che le conduceva a vivere secondo il volere di Dio”.
L’Istituto di S. Maria Maddalena per quei tempi era una novità; negli altri monasteri erano previsti diverse forme di penitenze corporali, qui sono bandite. Giulia insiste sulla meditazione della Croce e sulla mortificazione, ma in funzione di un radicale cambiamento interiore, “che faccia morire tutto ciò che tiene impigliati nella schiavitù dell’uomo vecchio per aprirsi all’azione trasformante di Dio e offrirsi con Cristo crocifisso perché tutti gli uomini lo conoscono e lo amino”.
La Marchesa per le sue figlie aveva composto una “Novena in onore di S. Maria Maddalena”. Compose anche una serie di pregevoli meditazioni e preghiere. Inoltre, preparò un commento alla Via Crucis. Il culmine della vita spirituale per Giulia è la semplicità: si avverte in questo l’impronta di san Francesco di Sales. In pratica la Marchesa “si rivela una guida spirituale intelligente e teologica e ascetica ferma, dimostrando, oltre a un fino intuito psicologico, da pedagogista nata, una vasta cultura teologica e ascetica […]”. Gli studiosi individuano nella spiritualità della Marchesa un influsso decisivo dei suoi direttori spirituali, tra cui il venerabile Pio Brunone Lanteri, il teologo Luigi Guala e san Giuseppe Cafasso.
Nel 1846 la fondazione della Marchesa, con l’appoggio dell’arcivescovo, del Nunzio Apostolico e del re Carlo Alberto, ottiene da papa Gregorio XVI l’approvazione dell’Istituto.
Intanto, a un anno dalla fondazione delle “Maddalene”, Giulia insieme a suo marito diedero vita a una seconda congregazione: Le suore di Sant’Anna, destinate all’apostolato nelle scuole materne. Per garantire la presenza educativa qualificata negli asili e nelle scuole da esse fondate. E siamo al X capitolo (1834).
Il 10 dicembre ottengono l’approvazione dell’arcivescovo monsignor Fransoni e successivamente anche quella del Papa. Ma arriva la riforma scolastica voluta dal governo, a questo punto, la Marchesa teme che dietro al provvedimento si nasconde un disegno antireligioso. Così è stato, il governo piemontese mise in atto la laicizzazione della scuola, fu soppressa la libertà d’insegnamento di cui beneficiavano le congregazioni religiose e tutte le scuole furono sottoposte alla stretta sorveglianza governativa, anche l’insegnamento della religione, al quale veniva tolta ai Vescovi qualsiasi facoltà di intervento. In pratica, tutte le scuole rette da istituzioni religiose dovevano uniformarsi alle leggi statali. Monsignor Fransoni si oppose alla circolare del governo e invitò le suore a rifiutare gli ordini del governo. Successivamente le Suore di S. Anna si adattarono alle normative del governo.
L’XI capitolo (La morte del marito e le nuove istituzioni di carità [1838-1848]) La morte del marito per la marchesa rappresenta una dolorosa prova. Il 4 settembre 1838, Tancredi muore tra le braccia della sua desolatissima sposa nei pressi di Chiari in provincia di Brescia. Fu Silvio Pellico ad informare i parenti del marchese. Giulia rimase profondamente segnata dal triste evento della morte del marito, scrivendo a un Lord inglese, descrive il suo stato d’animo: “[…] io non sono più ormai che una naufraga nella vita, una sperduta, che sa di dover pagare un debito […] Io devo scontare i secolari privilegi degli avi, devo saldare i debiti che essi hanno contratto coi paria e con gli sfruttati […]”. Interessante conoscere l’approccio evangelico di Giulia all’eredità che gli ha lasciato il Marchese, intesa non come “proprietà”, ma come “deposito” da usare a favore dei poveri. Tutto questo è ben definito nel testamento del marchese.
“Giulia – scrive la curatrice del libro suor Ave Tago – intensificò la sua carità, considerandosi semplice amministratrice dei beni di cui Tancredi l’aveva lasciata erede universale”. Giulia dopo la morte del marito si dedicò completamente a portare avanti le innumerevoli opere di carità iniziate quando il marito era in vita, malgrado le molte e lusinghiere proposte di matrimonio. “Prese a vestire modestamente, scelse un regime di vita povero e austero, sulla sua mensa c’era lo stesso cibo che veniva distribuito ai numerosi poveri nel grande atrio del suo palazzo, e impegnava ogni attimo del suo tempo nelle sue attività caritative”. La Tago descrive la giornata operosa della Marchesa, in lei è presente un instancabile dinamismo: preghiera, amministrazione del suo patrimonio, visita alle carcerate, ai suoi istituti, colloqui con le sue “figlie”. Si recava abitualmente nelle chiese dove era esposto il Santissimo per l’adorazione. Il breve periodo di riposo di solito lo trascorreva alla “Vigna” di Moncalieri nei mesi estivi.
Intanto nonostante la mancanza del marito, Giulia dà un nuovo impulso all’attività sociale e caritativa. Ammirando le Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento durante uno dei suoi viaggi a Roma, pensò di introdurre la pia pratica anche nella città di Torino. Anche qui la marchesa da parte sua contribuì mettendo a disposizione delle suore una rendita perpetua di lit. 5.000 (circa 14.962 euro). Nel 185 la Barolo istituì l’Ospedaletto di S. Filomena, allo scopo di ospitare 60 ragazze disabili povere dai tre ai dodici anni che vi potevano rimanere fino ai diciotto anni. La direzione dell’ospedaletto venne affidata alle Suore di San Giuseppe e l’assistenza infermieristica alle Oblate di Santa Maria Maddalena, alle quali la Fondatrice chiedeva che trattassero le bambine inferme come la più viva immagine di Gesù Cristo.
Attorno alla cittadella della carità, così poteva essere chiamata la struttura attorno al Rifugio, nel 1857, la Barolo aggiunse l’ultimo tassello, un laboratorio dove giovani povere potevano imparare un mestiere. Laboratorio dedicato a San Giuseppe, poteva accogliere più di cento ragazze, di età tra i dieci e i diciotto anni. Intanto alla Marchesa si aggiunge una figura che tanto ha poi dato alla città di Torino, mi riferisco a san Giovanni Bosco. Il santo nel portare avanti la sua missione sacerdotale, ha attinto molto dalle opere di Giulia Barolo, lo notò don Pietro Braido, studioso del santo. Ultime opere di cui ancora non abbiamo accennato, sono Le Famiglie di Operaie (1845-46) “La concezione di questa fondazione – scrive suor Ave Tago – era ardita per modernità e novità di organizzazione”. Lo stesso Silvio Pellico era rimasto impressionato, si trattava di strutture come le case-famiglia attuali. Qui le ragazze al massimo rimanevano per sei anni, imparavano un mestiere e ricevevano una formazione culturale, morale e religiosa, oltre ad imparare ad essere delle brave donne di casa. La loro guida era una “madre laica” che poi li collocava presso botteghe artigiane o opifici che tra l’altro facevano a gara ad avere queste lavoranti, ben formate alle virtù, ma anche ben formate ad essere pronte ad un matrimonio serio e fedele.
Il XII capitolo (Rapporti della marchesa Giulia Colbert di Barolo con la gerarchia ecclesiastica) Naturalmente per le opere e gli istituti religiosi da lei fondati doveva necessariamente avere contatti frequenti con la gerarchia ecclesiastica. “Le sue relazioni con i Sommi Pontefici e gli Arcivescovi di Torino erano permeate di venerazione e di obbedienza”. In questo capitolo la curatrice del libro, espone dettagliatamente questi rapporti che avevano una condizione ben presente in Giulia: “si sentiva figlia della Chiesa, amava la Chiesa, desiderava ‘morire nella fede e nell’unione della Santa Chiesa Cattolica, Apostolica Romana’ e ringraziava il Signore della grazia ‘che mi faceste mettendomi nel numero de’ figli della vostra Chiesa”. IL Lanza sottolinea la sua fermezza nel difendere i principi religiosi e i diritti della Chiesa, tenendosi sempre fedele ed ossequente al Vangelo di Gesù Cristo, al Magistero infallibile della santa Chiesa cattolica, al Sommo Pontefice Gregorio XVI, Pio IX, ma anche gli arcivescovi di Torino, in particolare con monsignor Luigi Fransoni, che andò a trovarlo anche quando era in prigione nel forte di Fenestrelle. Diversi furono i cappellani presenti in casa Barolo, spesso la Marchesa ricorreva ai sacerdoti per avere consigli e conoscere la volontà di Dio. Erano i suoi direttori spirituali e confessori. Suor Ave segnala che non si ha al riguardo documentazione diretta per conoscere come guidarono Giulia nel cammino della santità. Probabilmente Pio Brunone Lanteri ebbe un influsso nella sua vita spirituale, stando a quanto riferisce il Gastaldi nella biografia che dedica al Fondatore degli Oblati di Maria Vergine. Un altro che influì sulla vita spirituale di Giulia è il teologo Luigi Guala, che fu per molti anni il suo confessore.
XIII capitolo (La persecuzione del 1848 e gli ultimi anni di vita [1848-1864]) Sono gli anni cruciali in cui si compie il Risorgimento nazionale e l’unificazione del Paese. In un primo tempo sembrava che si realizzasse il programma liberale moderato di Vincenzo Gioberti, che incarnava l’ideologia neoguelfa. Però contemporaneamente nei gruppi radicali repubblicani si diffondeva l’ostilità nei confronti della Chiesa, ritenuta conservatrice ed antidemocratica. Infatti, furono attaccati i maggiori difensori della Chiesa, i Gesuiti, che subirono calunnie e critiche. Così una folla organizzata cominciò ad attaccare le case dei Gesuiti, ma anche di altri religiosi. Suor Ave racconta questi momenti di attrito tra i governi piemontesi e la Chiesa in maniera equilibrata. Ben presto la politica piemontese si radicalizzò, in pratica, la maggioranza del “centrosinistra” in Parlamento, prende il sopravvento e pertanto attraverso leggi anticlericali si cercò di laicizzare il Paese. Monsignor Fransoni si oppose a tutto questo e fu arrestato. La tensione fra Governo Piemontese e Santa Sede aumenta; il 22 maggio 1855 fu votata la “legge dei conventi”, “un provvedimento grave e illiberale, che sopprimeva una parte dei capitoli collegiali e gli ordini religiosi […]”. Si tratta delle Leggi Rattazzi, che costrinsero il Papa Pio IX alla scomunica contro chi aveva contribuito ad emanarle. Intanto la Marchesa di Barolo viene allontanata dal carcere delle Forzate e così inizia anche per la Marchesa il periodo della persecuzione, che le causò una grande sofferenza. Arriva il 1848, l’anno secondo cui inizia il Risorgimento italiano. Giulia di Barolo è presa di mira dai fanatici del movimento liberal-massone. La Marchesa ricevette lettere piene di ingiurie e di minacce di morte, mentre sui giornali venivano pubblicati articoli e calunnie per denigrare e diffamare tutta la sua opera a favore delle classi povere. Qualche giornale cercò di insinuare che la Marchesa e Silvio Pellico si stavano sposando. La storia si ripete. Addirittura, masse di scalmanati, naturalmente sobillati dai notabili risorgimentisti massoni, si radunavano fin sotto le finestre del suo palazzo e dei suoi istituti lanciando sassi e insulti. Fu inviata persino la Guardia Nazionale a perquisire palazzo Barolo per accertare che non vi fossero nascosti i Gesuiti. Gli amici della Barolo, temendo per la sua incolumità, le consigliarono di lasciare il Piemonte. Intanto, molte persone che la conoscevano e che dovevano aiutarla, non l’hanno fatto, hanno preferito per quieto vivere stare dalla parte dei massoni rivoluzionari. “Lei che schiettamente amava la sua ‘patria’ e ne desiderava il progresso fondato sulla giustizia e sull’ordine sociale, soffriva di fronte a tali sconvolgimenti politici e sociali, alla strumentalizzazione del popolo, all’ostilità contro la Chiesa e gli Ordini religiosi”. A questo proposito con molta chiarezza scriveva: “il cattolicesimo torna d’impaccio agli italianissimi; non solamente si oltraggia e svilisce la religione, si cacciano i frati e le monache, ma dopo averli spogliati si lasciano basir di fame […]”.
Giulia in questo periodo dovette affrontare tante tribolazioni, ma perdonò sempre tutti, continuò ad assistere i bisognosi senza alcuna distinzione ideologica. Il capitolo si chiude riportando una delle ultime opere della Barolo, la costruzione della Chiesa di santa Giulia nel quartiere Vanchiglia e infine gli ultimi anni di vita della Marchesa abbastanza tribulati per la sua salute molto precaria. Muore il 19 gennaio 1864 all’età di 77 anni e sei mesi. Sepolta con l’abito di Terziaria Francescana, così come aveva espresso nel suo testamento. Ai suoi funerali, alle quattro del pomeriggio, prese parte una folla immensa.
Mi avvio alla conclusione della mia “anomala” recensione del libro su Giulia Colbert di Barolo, probabilmente ho trascurato molte cose, ma spero di aver dato il mio contributo per far conoscere questa grande donna. Il XIV capitolo, si occupa degli Scritti della marchesa. Giulia ha scritto molto si va da scritti a carattere diaristico, al narrativo, allo spirituale, al pratico, come si può leggere nelle sue lettere d’affari, i suoi interventi presso politici, ecclesiastici. Il riferimento per conoscere la Barolo sono le memorie di Silvio Pellico, il visconte Armand de Melun, il professor don Giovanni Lanza. Tuttavia, la maggior parte degli scritti e delle lettere della Barolo sono stati bruciati, come ha sostenuto il segretario Burdizzo.
Seguono tre Appendici, testimonianze sulla Marchesa, le biografie e la Storia della causa di beatificazione e canonizzazione. Prima di concludere vorrei segnalare l’intervista al cardinale Poupard, ora presidente emerito del Pontificio consiglio della cultura e del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. “L’attualità di questa grande figura consiste nel proporsi come una donna veramente moderna per tanti suoi aspetti e, contemporaneamente, come una persona dotata di grande interiorità, di una fede autentica e profonda, senza cedimenti nel bigottismo o nel devozionismo”. Insiste il cardinale, “Dovremmo tutti imparare da lei: perciò è importante che la si conosca meglio e si possano apprezzare le sue straordinarie ed attualissime virtù”.