“Sai perché lo chiamano il sasso di Barbato?”
La storia che gli stava per raccontare gliel’avrebbe raccontata innumerevoli volte, dopo quel giorno. Tutta, e sempre dall’inizio, anche se a volte è difficile dire dove inizi esattamente una storia (di solito proprio lì dove finisce lo sguardo di chi la racconta). E sempre uguale. I vecchi tendono a ripetersi. Ma non lo fanno per dimenticanza. Anzi. Lo fanno perché certe storie devono rimanere bene impresse nella memoria. Oppure perché certe storie servono solo a farsi fare le giuste domande.
La gente della piana
C’era voluta una lunga scarpinata per raggiungere la pianura; erano dovuti partire che era ancora buio, perché il cammino era lungo e se il sole si faceva alto in cielo troppo presto il caldo li avrebbe costretti a tornare indietro.
“Lo chiamano così perché era da qui che parlava alla gente della piana, proprio questa che vedi ai nostri piedi. La piana degli albanesi, la chiamano ora. Come perché? Perché i primi che vennero da queste parti erano albanesi. Cinque secoli fa. In realtà dicevano di essere Greci: pregavano come Greci e si vestivano come Greci. Poi il nostro Re diventò anche imperatore dell’Albania, e allora essere albanesi non fu più poi tanto male. Così questa divenne la piana degli albanesi. Perché vennero qui, vuoi sapere? Scappavano. Perché? Stai iniziando a fare domande, e questo mi piace. Scappavano per il motivo per cui scappano tutti. Non avevano più una casa dove tornare. Costantinopoli era caduta. Dov’è Costantinopoli? Ci stai prendendo gusto, con le domande, ma io sono vecchio e potrei perdere il filo del racconto e dimenticare il resto della storia. E questo è un rischio che non possiamo correre”.
Si appoggiò al sasso e riprese da dove aveva lasciato. “Barbato era un demonio, quando parlava. Lucido. Lui sì, non perdeva mai il filo. Ma le sue parole agitavano le fiamme dell’inferno. Si appoggiava sempre a questo sasso, mentre faceva i suoi comizi, fino a che non ha parlato più. E perché? Perché Crispi, il capo del Governo, lo fece arrestare. Lo accusarono di sobillare le masse, di aizzarle contro i padroni. Lo avrebbero messo in galera, certo. E ce lo avrebbero lasciato. Ma lui si difese. O meglio, non si difese. Disse proprio così, non è che non abbia fiducia in voi, ma è il codice che non mi riguarda. Perciò non mi difendo. Voi dovete condannare: noi siamo gli elementi distruttori di istituzioni per voi sacre. Voi dovete condannare: io renderò sempre omaggio alla vostra lealtà. Così disse. Infatti stavano per condannarlo. Cos’è successo poi? Abbiamo perso la battaglia di Adua, ed è caduto il governo Crispi. Dov’è Adua? In Etiopia. No, non scappavamo da niente, noi. Che ci eravamo andati a fare, fino in Africa? Ci erano andati gli altri, ci siamo andati pure noi. Ma ti ho già detto di non farmi perdere il filo del discorso, per favore”.
Creare un esercito
L’acqua nella boccia era talmente fredda che gli fecero male i denti, ma non ci badò molto, perché suo nonno l’aveva abituato a sopportare cose peggiori.
“La guerra era finita da poco, e di armi in giro ce n’erano ancora tante, abbastanza per un esercito. Ed infatti è quello che fecero, un esercito: di ammazzatine, in Sicilia, se ne era sempre fatte, ma cose come quella non se n’erano mai viste. Una cosa è ammazzare uno guardandolo in faccia, è questo è già un peccato, ma è un problema della tua coscienza, un problema tra te e il Signore. Oppure ci sono quelli che sparano a qualcuno alla schiena, per conto di altri, e quello è un lavoro, ma è un tipo di lavoro che non serve a dare da mangiare alla famiglia, e il Signore questo lo considera ancora più peccato. Ma quello che hanno fatto, ragazzo mio, il Signore non lo poteva perdonare. Solo che in questa storia il Signore centrava poco, e altri, qui sulla terra, fecero prima di lui”.
Un sogno
L’ombra dei picchi alle loro spalle ora li ricopriva come un fresco lenzuolo, ed era un piacere stare a sentire quei racconti mentre la brezza leggera, salendo dalle gole, portava con sé un vago odore di ginestre. Ovunque era giallo e verde, e gli sembrò di respirare aria buona, come non l’aveva respirata mai. Aria buona davvero, di quella che riempie i polmoni e ti resta dentro, insieme alle storie che ti raccontano, fino a che non cresci e non la senti più, l’aria, che si fa sempre più rara: ma le storie invece sì, quelle le senti, ti sono entrate dentro una volta e sai che ci resteranno.
“L’America! Come si fa a non voler andare in America? Da quando erano sbarcati gli americani, la Sicilia non era stata più la stessa! Vuoi sapere che cos’è, l’America? Vedrai! Per ora è un sogno, e lo era anche allora. Alcuni politici promettevano grandi cose, dicevano che avrebbero portato l’America! Ma siccome l’America era un sogno, se ne volevano andare tutti là. Alla fine se ne sarebbe andata la Sicilia intera: così nei comizi di piazza iniziarono a ripetere che grazie a loro la Sicilia sarebbe diventata una stella, una bellissima stella, la quarantanovesima stella della bandiera americana. E molti ci credettero. Altri finsero di crederci perché era meglio così. I comunisti no, per loro la Sicilia non doveva andare da nessuna parte, quella stella doveva restare dove stava”.
Niente più paura
“Barbato era morto da più di vent’anni, ed era morto, alla fine, per i fatti suoi: ma ogni anno, in quel giorno, continuavano a parlare dal suo sasso. Ed ogni anno c’era sempre più gente. I più fortunati si portavano dietro pane duro e formaggio, le prime ciliegie, vino nelle bottiglie col vimini intorno e sarde a beccafico; altri invece si portavano soltanto le mani nelle tasche e salivano fino in cima, accorrevano tra le loro bandiere, aggrappandosi alla coda degli asini quando la salita si faceva troppo dura. Ormai erano tanti, talmente tanti che non avevano più paura di radunarsi, com’era invece vent’anni prima, ai tempi di Barbato. La mattina stessa, un mafioso aveva detto “Ah sì, festeggiate il 1° maggio, ma vedrete stasera che festa!”, un altro, vedendo le donne che preparavano le vivande da portare alla piana, aveva detto “Stamattina vi finirà male, voi mi conoscete! Chi sale alla piana non avrà né padre né madre. Salirono tutti. Alla piana, il primo maggio 1947 salirono proprio tutti. Perché i mafiosi non volevano? Ora stai iniziando a fare le giuste domande“.
Prendere la mira
Il vecchio si chinò sulle ginocchia ed allungò il bastone ad indicare il limite tra le montagne ed il cielo, quasi a disegnare il sentiero che passava sotto i picchi che facevano quell’ombra tanto piacevole.
“Seguirono quella strada, fino a quei sassi bianchi che vedi lì, sì, proprio quelli, si accamparono ed aspettarono che facesse giorno prima di piazzare il cavalletto della loro Breda. Una mitragliatrice che andava che era un piacere, andava così bene che c’era il rischio di farsi prendere la mano. Stantuffava avanti e indietro precisa come il meccanismo di un orologio. Sparava così tanti colpi in così poco tempo, che non c’era nemmeno bisogno di prendere la mira. Chiunque era un bersaglio. Quando gli altri raccontano questa storia dicono sempre che la prima ad accasciarsi fu una vecchia, poi un mulo che si piegò sulle ginocchia facendo cadere il suo carico di pane bianco, e che solo allora tutti quanti si accorsero che quelli erano spari e non il rumore dei mortaretti. Ripetono tutti che ci misero un po’ a capire che quelli non erano botti di festa ma spari. Io invece credo che, in un certo senso, sia andata diversamente. Quelle persone erano state così tanto disperate prima, e così felici quel giorno, che non avrebbero distinto uno sparo da un botto nemmeno se la pistola gliel’avessero puntata dritto in faccia. E comunque nemmeno allora avrebbero smesso di ballare”.
La realtà dei fatti
“Chi sparò? Questa è una buona domanda, ma non quella che mi aspettavo. A sparare furono il bandito Giuliano e la sua banda. Ricordi l’esercito di quelli che volevano portare la Sicilia in America? Bene, lui era il colonnello del reparto armato del loro partito. Aprirono il fuoco sulle bandiere, sulle persone in festa, in attesa del discorso, e su tutto ciò che c’era nella valle. In poco tempo, alle ginestre gialle si unirono mille papaveri rossi. Perché spararono? Bene, è questa la domanda che mi aspettavo. Ricorda quello che sto per dirti, ragazzo mio: per quanto continuino ancora oggi – e chissà quanto a lungo continueranno a farlo – a cercare la realtà dei fatti, l’unica verità indiscussa è che non c’è una sola realtà. E non intendo dire che ognuno c’ha la sua vita e tira avanti come e finché può, ma che la realtà è come la terra, è fatta a strati. Si può dire che ci siano diversi strati per ogni realtà, ed in ognuno di questi strati ognuno agisce come se quella fosse l’unica realtà possibile. Ma il fatto è che quella sua realtà – per quanto infinita gli possa apparire – è essa stessa compresa in un’altra ancora più grande, e così via, tante volte quanto più è complesso il problema che stai per indagare. Allo stesso modo è composto l’universo. Nella realtà in cui viveva lui, o forse a questo punto dovrei dire nello strato della realtà che gli apparteneva, e che gli era concesso di vedere, il bandito Giuliano, bello come il sole, sparò perché credeva di stare portando la Sicilia in America”.
Di sicuro c’è solo che è morto
“E cosa centra la mafia? Bravo, è quello che volevo sentire. È così che funziona queste parti: una volta ti promettono l’America, la volta dopo ti prometto l’acqua e le strade, oppure le case, e la volta dopo ancora non ti promettono proprio niente e ti tocca stare zitto e basta. Ovunque sarebbe voluta andare la Sicilia, la Mafia non ce l’avrebbe fatta andare. Quando si parla di una cosa come la mafia, non puoi essere certo di nulla. Di sicuro c’è solo che è morto, scrisse un giornalista quando ritrovarono il corpo di Giuliano. E chi lo ha ammazzato a Giuliano, dici? E chi lo doveva ammazzare? È un bandito, la polizia lo ammazzò! Almeno questo scrissero nel rapporto: lui e quelli della sua banda si videro accerchiati e tentarono la fuga, ma mentre gli altri si arresero poco dopo, Giuliano dovettero rincorrerlo per un po’, finché non si girò a sparare mancando i poliziotti, ed alla fine un capitano lo abbatté con una raffica di mitra alla schiena. Lo fotografarono così, a pancia sotto, con tutto il sangue sulla canottiera. Peccato che i fori di proiettile fossero sulla pancia”.
La resa dei conti
“Quindi chi ammazzò Giuliano, vuoi sapere? Un suo compare, si chiamava Pisciotta, gli sparò nel sonno. Poi lo portarono lì, dove dissero che era avvenuto il conflitto a fuoco. Andarono addirittura a chiedere dell’acqua in una casa vicina, perché tutti sapessero che il bandito non era ancora morto. Cosa c’entra la mafia? Non avere fretta, ci siamo quasi. Vediamo se ci arrivi. C’era un cardinale, tale Ernesto Ruffini, che qualche giorno dopo la strage, scrisse addirittura che era “inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie anti-italiane e anticristiane dei comunisti”. Chiese addirittura di mettere i comunisti fuorilegge, ma l’Italia intera è ancora piena di armi e quella sarebbe stata la guerra civile. Durante il processo a Giuliano, si arrivò a dire che in fondo avevano agito come un plotone di polizia. Dissero che in tal modo supplivano solamente alla carenza dello Stato che in quel momento si notò in Sicilia. Ma per una volta quella dello Stato in Sicilia non era carenza: semplicemente Giuliano aveva fatto ciò che lo Stato non poteva o non voleva fare. I comunisti, in fondo, erano pur sempre in parlamento. E così usarono Giuliano. Non mi chiedi come arrivarono fino a lui? Bravo, vedo che hai capito. Cosa successe al compare che ammazzò Giuliano? Si fece arrestare dopo che gli promisero una pena lieve. Gli diedero sette anni. Pisciotta si era stancato, al processo avrebbe detto tutto, se non lo facevano uscire immediatamente di lì. La mattina dopo, a colazione, bevve il primo sorso di caffellatte ed iniziò a contorcersi dal dolore. Stricnina. Ebbe solo il tempo di imprecare farfugliando cose incomprensibili”.
1.Le parti in corsivo sono dichiarazioni originali.
2. Il giornalista cui si fa riferimento è Tommaso Besozzi de L’Europeo.