In occasione delle edizioni contemporanee in Italia di due suoi libri, nel 2015, (erano Tutto si muove attorno a me e Paese senza cappello), Dany Laferriére disse che cercava sempre nuove forme di scrittura, altrimenti si annoiava. Ha mantenuto la promessa con quest’ultimo, Sono uno scrittore giapponese (66thand2nd, 190 pgg. € 16,00). Un testo nel quale libera pensieri e parole nella universale domanda della funzione della letteratura.
Laferriére è giornalista e scrittore haitiano naturalizzato franco-canadese non per sua scelta. Lavorava a Radio Haiti Inter quando, l’1 giugno 1976, seppe della morte del suo amico e collega Gasner Raymond, il quale stava approfondendo aspetti del regime di Jean-Claude Duvalier “Baby Doc” il figlio di François, il dittatore di Haiti detto “Papa Doc”, che come il padre si contraddistingueva per il regime di intolleranza verso la stampa indipendente, l’arricchimento grazie ai fondi neri nell’industria del tabacco e per la fama da playboy. Gasner avrebbe dovuto vedersi con l’amico, prima dell’appuntamento fu ammazzato a sprangate. Capitò che una persona avvisò la madre di Laferriére che il prossimo sarebbe stato suo figlio. Dany partì poche ore dopo per Montreal grazie a un biglietto aereo che qualcuno gli procurò. Non ha mai saputo chi e non scelse lui la destinazione. Aveva ventitrè anni. Da allora a oggi Laferriére è diventato scrittore e nel 2013 accademico di Francia.
Così Montreal è diventata la sua casa-esilio e proprio a Montreal ambienta l’ultimo suo libro. Un testo breve, con brevi capitoli titolati, come fossero tasselli di un mosaico che soltanto alla fine riesci a comprendere.
Lo spunto è il titolo buttato giù in modo casuale dal protagonista all’editore che lo incalza: bisogna trovarlo per il nuovo libro, Laferriére si lascia scappare Sono uno scrittore giapponese.
Per vicinanza geografica e d’intenti, m’è tornato in mente un titolo del 1992 di Giovanni Giudici, “Andare in Cina a Piedi”. Era un racconto sulla poesia che pubblicò con E/O nel quale la Cina non c’entrava niente. Il titolo rimandava alla difficoltà del poetare. Scrivere una poesia che sia degna? Che rispetti il gesto, la scrittura, il senso? Oppure che non lo rispetti? lo rinneghi? E’ come andare in Cina a piedi! Una azione perlomeno faticosa. Si lasciava andare, Giudici in quel racconto, in prosa, al mondo e alle domande che via via si liberavano nel gesto dello scrivere e descrivere il suo mondo letterario.
Laferriére fa un po’ questo. A ruota libera intesse una storia con personaggi giapponesi che si trovano a Montreal o vi si recano proprio perché sono venuti a conoscenza dell’esistenza del libro Sono uno scrittore giapponese, del quale esiste però solo il titolo.
E trovato il titolo il più è fatto: vero. Ma intanto il protagonista deve scriverle le pagine, l’editore aspetta, ha già firmato un assegno di diecimila euro come acconto e lo scrittore invece se ne va a zonzo con quel senso di «angoscia diffusa che ti accompagna ovunque, persino in pescheria». Una storia strampalata nella quale il filo conduttore è il libro L’angusto sentiero del Nord che Matso Basho pubblicò alla fine del Seicento e che il protagonista ha sempre a portata di mano. La chiave di volta sta proprio nel non dover trarre una trama.
Il testo è lo spunto per farsi domande sulla scrittura, sul tempo, sulla capacità di percepire alcune cose o di non saperle percepire. Sulla stupidaggine della nazionalità, lui prende «di volta in volta la nazionalità di chi mi sta leggendo» e sul fatto che «scrivere un libro è un’ottima cosa, a volte però è ancor meglio non scriverlo». Non è questo il caso.
Maria Tiziana Lemme