Economia e Finanza
Mattarella sblocca la via della seta. È un via libera all’accordo con la Cina, quello che arriva dopo la colazione tra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e i vertici del governo, ieri al Quirinale. Il 5G non farà parte del memorandum, e questo sgombra il campo, per il momento, della principale criticità. Il vertice è servito a esaminare i criteri della “via della seta”, anche se il Capo dello Stato ritiene che la competenza sia strettamente dell’esecutivo. L’accordo quadro è stato quindi presentato al presidente: oltre al premier Giuseppe Conte, c’erano i viceministri Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i ministri Giovanni Tria, Enzo Moavero Milanesi, Elisabetta Trenta, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Il memorandum è molto meno pregnante di tanti altri siglati bilateralmente da altri Paesi europei e le regole d’ingaggio italiane riguardo agli accordi con Pechino sono molto più severe e stringenti del documento dell’Unione europea. I paletti che vanno rispettati sono quelli della sicurezza nazionale, in particolare sul fronte delle telecomunicazioni e delle regole antitrust. Insomma, l’accordo non deve contemplare settori strategici dello Stato. I protocolli che definiranno nel concreto l’intesa – porti, aviazione, scambi commerciali, investimenti – dovranno tenere conto di alcune regole di massima. Ma resta ancora coperto da grande riserbo l’elenco completo dei 50 accordi (29 accordi istituzionali e tra ministeri e 21 tra aziende private o partecipate) che verranno firmati il 22 e 23 marzo a Roma durante la visita del presidente cinese Xi Jinping a corollario del Memorandum of Understanding tra le autorità italiane e cinesi sulla Bri, Belt and Road Initiative. In molti casi si tratterà di rinnovare vecchie intese o ampliarne la portata ma vi sono anche numerosi accordi nuovi come quelli che riguardano i porti di Trieste e di Genova, Fincantieri, Ferrovie Cdp, Terna, Eni, Snam, Italgas, Unicredit e Intesa San Paolo.
L’apertura di Di Maio ai sindacati. Fronte comune di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil nei confronti del governo sulla crescita del Paese, per mettere in primo piano lavoro, Europa e investimenti. Ieri c’è stato un primo incontro tra le parti per applicare il Patto della fabbrica, rimasto inattuato su rappresentanza, perimetri contrattuali, formazione, welfare e allargare il raggio a tutte le questioni che riguardano lo sviluppo del Paese dall’apertura dei cantieri al fisco per il lavoro. A giorni verrà avviato un confronto su investimenti, fisco, contratti e autonomia regionale. «Bisogna evitare che l’Europa sia un alibi per non fare le cose che servono al Paese», ha detto il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, che ha rilanciato la «politica dei fini»: cioè «individuare le grandi missioni politiche e far derivare da queste strumenti e finanziamenti. Grandi obiettivi da porre all’attenzione dell’opinione pubblica, rilanciando il ruolo delle parti sociali». La priorità è il lavoro, cuore del Patto della fabbrica. Da raggiungere, come Boccia sta dicendo da tempo, con un taglio al cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori e rilanciando gli investimenti. L’incontro, che si è tenuto in Confindustria, è cominciato subito dopo il tavolo tra i sindacati e il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio. C’è una comune preoccupazione, tra imprenditori e sindacati, per i segnali negativi che arrivano dall’economia e la volontà di dare un contributo all’azione di governo. E proprio sul salario minimo, il ministro Di Maio ha promesso un tavolo tecnico di confronto con i sindacati, perché «non vogliamo superare la contrattazione sindacale». Il tema è molto delicato. Secondo l’Istat, l’introduzione del salario minimo equivarrebbe ad un aumento medio annuale della retribuzione di 1.073 euro per chi sta sotto i 9 euro l’ora. Ma, avverte Roberto Monducci dell’Istat, «un salario minimo troppo alto potrebbe scoraggiare la domanda di lavoro o costituire un incentivo al lavoro irregolare», perciò è importante che l’intervento sia «coordinato con altri istituti, come il reddito di cittadinanza».
Politica interna
Centrodestra, vertice sui voti locali. Il giallo del vertice di centrodestra sulle amministrative, caso Piemonte al centro, va avanti per ore. Salvini sembra preoccupato solo di smentire, come se temesse le ire dei 5Stelle. Ma nel tardo pomeriggio l’incontro a Roma si tiene e manca solo Berlusconi. Con il vicepremier leghista e la leader di FdI Giorgia Meloni si confronta il vicepresidente di Fi Antonio Tajani, appena arrivato da Strasburgo. Nella casa di Salvini di fronte a Palazzo Grazioli si discute, anche con Giancarlo Giorgetti, Licia Ronzulli e Ignazio La Russa, delle candidature in diversi capoluoghi contesi, ma nulla è definitivo, salvo la volontà ribadita di indicare nomi comuni. Rimane il nodo dell’investitura ufficiale del candidato-governatore in Piemonte, l’azzurro Alberto Cirio. La Lega rinvia, sembra abbia pronto Paolo Damilano, con la giustificazione che l’eurodeputato di Fi non ha ancora avuto l’archiviazione annunciata nell’inchiesta Rimborsopoli. Ma proprio ieri, il coordinatore piemontese del Carroccio, Riccardo Molinari, esprimeva apprezzamento su Cirio e ribadiva che tocca a Fi decidere. Con Salvini, però. E la sensazione è che, come in altre regioni, il Capitano faccia pesare il suo successo elettorale, eviti scontri con il M5S e tenga, tatticamente, gli alleati sulla corda, mentre si accaparra le piazze migliori. È poi diventato un caso la frase pronunciata dal vice presidente di Fi Antonio Tajani che, alla trasmissione “La zanzara” su Radio 24 ha detto: «Mussolini? Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro paese». E così agli avversari politici bastano due tre nozioni di storia per attaccare il presidente dell’Europarlamento. «Si vergogni per ciò che ha detto su Mussolini – scrive il sottosegretario del M5S Stefano Buffagni -. Tra leggi razziali, omicidio Matteotti e gli anni bui della democrazia ricordo che la nostra Costituzione si basa su altri valori. Orgoglioso di essere diverso da loro». Tajani cerca di difendersi tramite social: «Si vergogni chi strumentalizza le mie parole. Sono da sempre un antifascista convinto. Non permetto a nessuno di insinuare il contrario. La dittatura fascista, le sue leggi razziali, i morti che ha causato sono la pagina più buia della storia italiana ed europea».
Le foto private di Sarti scuotono la politica. Le foto intime di Giulia Sarti tornano a circolare su Internet. La deputata del M5S riceve la solidarietà di tutto il Parlamento, dal presidente della Camera Roberto Fico fino ai parlamentari di Pd, Forza Italia, Lega, Leu. Si schierano in sua difesa Mara Carfagna, Barbara Saltamartini, Laura Boldrini. Ma per l’ex presidente della Commissione Giustizia non c’è pace. È sotto processo da parte dei probiviri M5S. Non ha ancora dato una sua versione, ma starebbe pensando di difendersi: parlando, nelle controdeduzioni da presentare contro l’espulsione, di nuovi ammanchi sul suo conto. E della possibilità di fare un’altra denuncia contro l’ex compagno. E potrebbero esserci in circolazione altre foto e filmini privati della parlamentare grillina, ma anche registrazioni di incontri con politici ed esponenti di primo piano del M5S. Tanto basta per far scattare la psicosi di un ricatto contro la deputata costretta a dimettersi dieci giorni fa da presidente della commissione Giustizia della Camera perché si è scoperto che aveva denunciato il fidanzato accusandolo falsamente di essersi appropriato dei fondi del Movimento pur sapendo che non era vero. E il timore che il materiale possa essere utilizzato anche contro altri parlamentari e ministri. Dopo la diffusione sui cellulari di politici e giornalisti di otto immagini – rubate da un hacker qualche anno fa – e di un falso video porno, scatta la solidarietà dell’intero Parlamento nei confronti di Sarti. Deputati e senatori di tutti i partiti parlano di «cyberbullismo», esprimono «condanna per quanto sta accadendo». Ma il clima è di massima tensione, tanto che il garante della Privacy interviene per «richiamare l’attenzione dei mezzi di informazione invitando all’astensione dal diffondere dati riguardanti la sfera intima di una persona per il solo fatto che si tratti di un personaggio noto o che eserciti funzioni pubbliche, richiedendo invece il pieno rispetto della sua vita privata quando le notizie o i dati non hanno rilievo sul suo ruolo e sulla sua vita pubblica». Un monito condiviso dal presidente della Camera Roberto Fico che parla di atti «vigliacchi e vergognosi».
Politica estera
Brexit, divorzio verso il rinvio. Il Parlamento di Westminster non vuole uscire dall’Unione Europea senza un accordo. A poco più di due settimane dalla data prevista di Brexit, l’opzione “no deal” è stata respinta ieri sera con 278 voti contrari e 321 voti a favore. Il prossimo passo ora è la richiesta formale del Governo alla Ue di rinviare Brexit, che verrà decisa oggi, come ha confermato Theresa May dopo il voto. Il testo della mozione originale del Governo era «il Parlamento non approva Brexit il 29 marzo senza un accordo di recesso o un’intesa quadro sui rapporti futuri, ma nota che no deal resta la conseguenza a meno che Gran Bretagna e Unione Europea ratifichino un’intesa». Il testo voluto dalla May era quindi volutamente ambiguo per non escludere la possibilità di un “no deal” in futuro. Per questo il Parlamento è andato oltre: i deputati hanno votato a favore di un emendamento proposto da deputati conservatori e laburisti, che respinge tout court l’idea di un’uscita senza accordo. L’emendamento non è vincolante, ma invia un chiaro messaggio sulla determinazione del Parlamento di evitare il “compromesso Malthouse”, che chiedeva un rinvio di Brexit fino al 22 maggio per dare tempo alle parti a prepararsi a un’uscita senza accordo e un lungo periodo di transizione per negoziare i rapporti futuri. Sul voto di ieri sera una portavoce della Commissione europea ha notato che non è sufficiente escludere una uscita senza accordo: «È necessario approvare un accordo di recesso. Abbiamo approvato un accordo con la premier Theresa May e siamo pronti a firmarlo». Secondo le informazioni raccolte a Bruxelles, diplomatici dei Ventisette hanno tenuto ieri una discussione nella quale hanno analizzato le varie opzioni sul tavolo. Ormai queste sono ridotte a due. Il Regno Unito può chiedere una proroga del periodo di due anni tra la data di notifica dell’uscita e l’uscita vera e propria, così come stabilito dall’articolo 50 dei Trattati. In assenza di una approvazione all’ultimo minuto dell’accordo di recesso, l’altra opzione è nei fatti un hard Brexit il 29 marzo.
Usa: stop ai Boeing «737 Max». Dopo il no del Canada, i voli con il Boeing 737 Max 8 ieri, per alcune ore, sono stati vietati in tutto il mondo, ma non negli Stati Uniti. Alla fine Trump ha rinunciato alla difesa a oltranza del colosso dell’aviazione Usa annunciando dalla Casa Bianca che verrà emesso un «ordine di emergenza» per «lasciare a terra i 737 Max 8, i 737 Max 9 e tutti gli altri aerei collegati a questi modelli». Ha aggiunto che sia la Federal Aviation Administration che Boeing «sono d’accordo» con la sua decisione. «Ogni aereo in volo continuerà fino al raggiungimento della destinazione e poi rimarrà a terrà». Fino a nuovo ordine dunque è vietato in tutto il mondo volare con il nuovo jet a medio raggio di Boeing. Decisione seguita allo schianto del volo 302 dell’Ethiopian Airlines di domenica, dove sono morte tutte le 157 persone a bordo. Incidente simile al primo avvenuto su un 737 Max 8, operato da Lion Air, in Indonesia, lo scorso ottobre, nel quale morirono 189 persone. In entrambi i casi il crash è avvenuto pochi minuti dopo il decollo. Il ceo di Boeing Dennis A. Mullenburg poche ore prima aveva telefonato al presidente Trump «per rassicurarlo sulla sicurezza dei 737 Max». Ma la telefonata non è stata sufficiente. E nel giorno in cui il presidente degli Usa Trump impone lo stop al velivolo anche nel suo Paese, l’esame delle due scatole nere del Boeing 737 Max 8 di Ethiopian Airlines, diventa un caso internazionale. La compagnia aerea africana insiste perché gli apparecchi – che registrano i dati di volo e le voci dei piloti – siano ripuliti e decifrati in Europa. La Germania, prima scelta di Addis Abeba, sostiene di non avere il software necessario per l’estrazione dei dati. Ma è la Francia a chiudere la partita, annunciando in serata di essere pronta a ricevere oggi i dispositivi. La decisione irrita parecchio gli americani: il costruttore (Boeing), l’ente federale dell’aviazione (Faa) e gli investigatori dell’Ntsb. La partita è diventata finanziaria e politica, non solo tecnica.