Economia e finanza
L’Iva non aumenterà. Manovra da 40 miliardi. L’ultima parola sull’Iva non è arrivata ieri da Camera e Senato che hanno approvato la risoluzione di maggioranza sul Def (272 sì a Montecitorio, 161 a Palazzo Madama). L’intervento in Aula a Montecitorio del ministro dell’Economia Tria per esprimere il parere favorevole del governo alla risoluzione di maggioranza sancisce l’intesa. Si procederà ad adottare le «misure alternative» anche «dal lato della spesa» e nel «rispetto degli obiettivi di finanza pubblica». In altre parole l’Iva non aumenterà di 3 punti nel 2020 come previsto dalla attuale normativa, perché in sede di legge di Bilancio, in autunno, ha spiegato il ministro, «la legge cambierà». L’opzione per le «misure alternative» prospetta una manovra assai pesante sui conti pubblici e sul Paese: 23,1 miliardi costa la sterilizzazione dell’Iva, circa 15 la flat tax, 2,5 miliardi le spese indifferibili (missioni militari ecc.) e 2 miliardi la correzione dei saldi: si arriva a 40 miliardi. Tria dunque ottiene la «decisione politica» chiesta mercoledì in Parlamento e aderisce ai diktat della coppia dei leader gialloverdi: peraltro andare alle prossime elezioni con un aumento dell’Iva non deve essere stato giudicato prudente.
Alitalia, le Ferrovie restano sole. Dopo tre proroghe, il governo elimina il termine fissato dal decreto semplificazioni (30 giugno 2019) per la restituzione del prestito-ponte di 900 milioni concesso ad Alitalia dal ministero dell’Economia dopo il commissariamento. La novità è prevista nelle prime bozze del decreto legge crescita, nell’articolo 38, norma «volta a consentire l’eventuale ingresso del Mef nel capitale sociale della Newco Nuova Alitalia». È previsto infatti che il ministero possa usare i proventi degli interessi sul prestito, «stimati in 145 milioni», per sottoscrivere quote di capitale dell’ipotizzata «nuova Alitalia», la società che verrà costituita se avrà successo il progetto delle Fs con altri soci per rilevare l’aviolinea; finora le adesioni sono ferme al 60% del capitale. Su questo fronte c’è da registrare la chiusura di Atlantia sull’ipotesi di un ingresso nella newco: per l’ad Castellucci nel cda non se ne è mai parlato: <Essendo noi azionisti dell’hub dove Alitalia opera (gli Aeroporti di Roma ndr), speriamo che venga rilanciata, salvata e ristrutturata, ma dall’altro lato abbiamo talmente tanti fronti aperti”.
Politica interna
Siri indagato per tangenti. Giuseppe Conte prende tempo. «Non esprimo una valutazione. Come premier avverto il dovere e la sensibilità di parlare con il diretto interessato, Armando Siri. Chiederò a lui chiarimenti e all’esito di questo confronto valuteremo». L’indagine per corruzione nei confronti del sottosegretario leghista alle Infrastrutture fa precipitare il Governo sull’orlo della crisi mentre è in corso il Consiglio dei ministri a Reggio Calabria. Il senatore leghista vicinissimo a Salvini è indagato per corruzione in un’inchiesta a cavallo tra Palermo e Roma per una presunta tangente da 30 mila euro elargita da un imprenditore in odore di mafia. «Abbiamo le prove» sostiene Di Maio. E sono pronti ad andare a spiegare tutto dai magistrati e a portare ai pm le prove che Siri avrebbe spinto fino al ministero competente sull’energia l’emendamento che aveva a cuore Paolo Arata, l’ex deputato di Fi coinvolto nell’inchiesta con il sottosegretario leghista. Siri è provato, seccato, sconcertato: «È una roba folle, folle… non ho mai preso un soldo da nessuno. Arata è stato anche commissario straordinario dell’Enea. Ha partecipato a convegni della Lega come docente esperto. Cosa ne so io se questo è un faccendiere?». Salvini
Ama, le pressioni di Raggi. La battaglia della monnezza, a Roma, fa un salto di livello. E si sposta dalle strade più sporche d’Europa (come certifica una ricerca di Eurostat) ai palazzi del potere e della giustizia. E soprattutto al Campidoglio, travolto dall’inchiesta dell’Espresso sulla gestione della municipalizzata dei rifiuti, Ama spa, da parte di Virginia Raggi e i suoi uomini. Il settimanale ha infatti scoperto che l’ex presidente e amministratore delegato Lorenzo Bagnacani, che è stato licenziato in tronco dalla Raggi a febbraio, qualche giorno fa ha spedito ai pm un esposto, dove accusa la sindaca in persona. La Raggi, scrive Bagnacani ai pm, avrebbe esercitato «pressioni» indebite su di lui e sull’intero cda dell’azienda, «finalizzate a determinare la chiusura del bilancio dell’Ama in passivo, mediante lo storno dei crediti per i servizi cimiteriali». Salvini ieri sera ha commentato: «La Raggi è inadeguata. Le dimissioni? Non le chiedo per polemica politica, ma se un sindaco dice “ho la città fuori controllo”, dico: “amica mia, cambia mestiere”.
Politica estera
Libia, Conte rilancia la soluzione politica. L’interesse nazionale dell’Italia richiede ora più che mai una soluzione politica della crisi libica con il cessate il fuoco e il ritiro delle forze di Haftar da Tripoli. Questo in sintesi il messaggio che il premier Giuseppe Conte ha ribadito ieri sera al Senato in un’informativa sulla situazione in Libia proprio mentre il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a New York ascoltava il messaggio da Tripoli dell’inviato Ghassam Salamè, nessuna ipotesi di tregua umanitaria e duro atto di accusa sulle divisioni nella comunità internazionale che stanno alimentando le ambizioni del generale Haftar che si sente dalla parte giusta della storia per contrastare ogni deriva dell’Islam politico. Intanto, il governo di Tripoli rompe con Parigi: il ministro dell’Interno Fathi Bishaga ha annunciato l’interruzione di ogni contatto sui temi della sicurezza perché «la Francia appoggia il criminale Haftar: qualsiasi relazione con la parte francese nell’ambito negli accordi bilaterali nel campo della sicurezza si fermerà». Bishaga martedì ha incontrato l’ambasciatore italiano a Tripoli. Hanno parlato di come riprendere a pieno ritmo e aumentare la cooperazione. <Apprezziamo l’appoggio del governo italiano a differenza di altri Paesi, che hanno agito contro il governo legale del Paese, come la Francia sponsor del ribelle Haftar>.
Russiagate, nessuna prova di reato. Contatti con Mosca, tanti. E tentativi di neutralizzare le indagini, numerosi. Simili relazioni con emissari del Cremlino non bastano però a dimostrare una «cospirazione» criminale. E non è stato possibile provare che gli ostacoli posti da Donald Trump sul cammino delle indagini per far luce sul Russiagate costituiscano veri reati di ostruzione della giustizia e abusi di potere. Più che un’assoluzione è una non colpevolezza per mancanza di prove. Il Congresso è libero di riaprire le indagini su Donald Trump e il Russiagate, per verificare “l’ostruzione della giustizia”, reato da impeachment. È questa la principale conclusione del Rapporto Mueller, che ieri è stato finalmente consegnato al Parlamento americano, sia pure in una versione censurata da molti omissis. Le formule usate dal superinquirente (Special Counsel) Robert Mueller sono meno innocentiste della sintesi che ne aveva fatto il 23 marzo il ministro di Giustizia, William Barr. La palla è nel campo dei democratici, che in passato si erano divisi sull’opportunità di perseguire l’interdizione del presidente.