I dati dello Svimez sulle condizioni del Mezzogiorno hanno suscitato una serie di reazioni: non tutte ragionevoli. In molti sembra forte la convinzione che per dare slancio all’economia delle regioni meridionali si debba adottare nuove forme di intervento. Preso atto del fallimento della Cassa del Mezzogiorno prima, e anche della legge del 1992 in seguito, si continua a cercare un «piano» che funzioni: e in questa direzione sembra muoversi pure il ministro Guidi. Non c’è insomma consapevolezza della necessità di togliere finanziamenti e garantire incentivi. In un libro che sette anni fa scrissi con Piercamillo Falasca ( Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno , edito da Rubbettino) si immaginava invece un Sud quale no tax area , liberando tutte le imprese che operano nel Mezzogiorno da ogni tassazione. Accompagnando questo, ovviamente, con la cancellazione di qualsiasi aiuto. In altre parole, oggi lo Stato prende risorse – essenzialmente al Nord – e poi finanzia in maniera selettiva, dando quindi un enorme potere a politici e burocrazie, oltre che alle mafie che vivono di denaro pubblico. Il sistema ha fallito: prima si è orientato alla costruzione di grandi imprese artificiose; poi ha alimentato forme di clientelismo diffuso, utili a sopravvivere e a creare potentati politici, ma incapaci di porre le basi per un’economia sana. La defiscalizzazione del Sud lascerebbe invece i profitti a chi li realizza. Il beneficio non andrebbe agli amici degli amici, ma a chi produce beni e servizi che il mercato apprezza. E un Sud senza tasse diventerebbe fortemente attrattivo, poiché i capitali di mezzo mondo, come già nel caso della no tax area in Irlanda, prenderebbero molto sul serio l’ipotesi d’investire in Puglia, Sicilia o Basilicata. Gli irlandesi avviarono la lunga marcia del loro successo economico nel 1981, individuando un’area di 600 acri (la Shannon free zone ) e introducendovi una fiscalità di favore. Questo generò un vasto parco industriale che attirò numerose multinazionali. Ma nel nostro caso si tratterebbe di liberare l’intero Sud, dove quasi la metà dei giovani è senza lavoro. Certo si tratterebbe in qualche modo di assicurare un «privilegio», ma fin dai tempi della Magna Charta è noto che le libertà nascono dalle esenzioni: che prima sono riconosciute a taluni e in seguito vengono estese a tutti. Per giunta il Nord stesso avrebbe tutto da guadagnare da un Sud con un’economia finalmente dinamica, orientata verso i consumatori, sottratta a ogni tutela politica. Senza dimenticare che la spaccatura fiscale tra Settentrione e Meridione dovrebbe essere accompagnata da una responsabilizzazione degli enti locali, chiamati a vivere di risorse loro. Bisogna allora prendere sul serio – al di là delle sue stesse intenzioni – quanto nei giorni scorsi ha detto il sindaco di Napoli Luigi De Magistris quando ha affermato che «le somme incassate devono rimanere nei territori». È indispensabile insomma che Comuni e Regioni vivano unicamente del denaro versato loro dai propri amministrati. Soltanto collegando direttamente i servizi offerti e le imposte pagate è possibile porre un freno alla spesa pubblica, che è la vera causa del fatto che negli quindici ultimi anni il Mezzogiorno è cresciuto meno della Grecia. Se insomma De Magistris vuole spendere, prima deve farsi dare i soldi dai cittadini napoletani. Niente deve venire dallo Stato e quindi dal resto del Paese. Cancellare ogni tassa sulle imprese e operare un’autentica responsabilizzazione degli enti locali produrrebbe una rivoluzione liberale. Ed è di questo che il Sud ha bisogno.