di Maria Lupica

Francesca Guandalini nata a Carpi (Modena), classe 75, laureata in lettere classiche, dottoressa in archeologia dal 2006 e specializzata in archeologia. Coofondatrice nel 2010 di ArcheoModena, una associazione di professionisti archeologi, insieme a Francesco Benassi e Simona Scaruffi.

Francesca ho avuto la fortuna di conoscerti per anni su Facebook e poi finalmente di incontrarti personalmente a Palermo, quando qualche anno fa sei venuta con la tua splendida famiglia in visita nella nostra Sicilia e ti ho fatto un po’ da guida turistica. Da siciliana DOP, la prima domanda che ti faccio è come hai trovato la nostra Isola dal punto di vista storico-archeologico e sociale?

È un’isola estremamente interessante, dove sono già stata la prima volta a 25 anni e vi sono ritornata a 48 anni con tutta la mia famiglia. La Sicilia offre opportunità incredibili per l’archeologia, ma anche per le strutture storico-architettoniche veramente interessanti. L’archeologia modenese non ha nulla a che vedere con l’archeologia siciliana.

Interessante

Si, perché l’archeologia dell’Italia meridionale è ricchissima per quanto riguarda le strutture, mentre la nostra (archeologia emiliana) è un’archeologia prevalentemente fatta di terra. Infatti siamo famosi per leTerramare, villaggi dell’età del bronzo di cui rimangono soprattuttoi resti delle capanne. Il termine terramare deriva da terra marna, termine utilizzato dagli agronomi del XIX secolo per designare il terriccio fertilizzante che si ricavava dai depositi archeologici pluristratificati risalenti all’età del Bronzo. Il terriccio fertilizzante deriva dalla degradazione delle antichissime capanne in legno…nella pianura emiliana si vedevano delle piccole alture costituite da legno e terra, che i contadini usavano come concime per i campi

Palafitte?

Non sono palafitte fatte su corsi d’acqua, sono capanne su pali che tutte insieme formavano un villaggio di solito difeso da un fossato.

Certo. Perché dove c’è acqua, c’è vita.

Quindi una cultura materiale-archeologica diversa.

Certo profondamente diversa dalla nostra, ma comunque affascinante. Io so che la tua scelta di fare l’archeologa è stata libera e consapevole, anche contro il parere della tua famiglia. È stato difficile, affermarti in questo campo professionale misterioso e allo stesso tempo affascinante?

Dunque si: nel senso che ho iniziato da prima collaborando con l’università, poi è diventato un lavoro. Attualmente sono una libera professionista e lavoro soprattutto nella zona di Modena Reggio Emilia e Bologna. Come tanti altri miei stimati colleghi rappresento l’anello tra la Soprintendenza e la committenza, cioè mi occupo concretamente di scavare.

Si, perché come ho già detto: tu hai fondato una associazione di ricerca archeologica.

Si, l’ArcheoModena, il cui nome vuole ricordare il luogo in cui maggiormente operiamo.

Puoi raccontarci qualche episodio che più degli altri ti ha spinto ad andare avanti o che al contrario ti ha fatto un po’ tentennare e magari per un istante ha insinuato nella tua giovane mente l’idea che forse non avevi fatto la scelta giusta professionalmente?

Beh, questo tutti i giorni. Ma dopo un ventennio di professionein parte si perde l’effetto dell’avventura, l’emozione del ritrovamentoeccezionale e tutto finisce per diventare una professione.

Una tua scoperta archeologica individuale o collettiva dello staff che ti ha fatto sentire un po’ parte della Storia?

Un motivo di vanto è l’aver partecipato insieme ai miei colleghi di ArcheoModena e agli studenti delle Università di Modena, Reggio Emilia e Bologna allo scavo diun santuario gallo-romano a Montegibbio di Sassuolo a Modena. Un sito molto interessanteperché si tratta di un santuario, dedicato alla dea Minerva,costruito vicino ai vulcanetti di fango da noi chiamati salse, da voiin Sicilia maccalube.

Adesso la domanda spinosa. Cosa è cambiato nelle ricerche archeologiche da quando hai iniziato tu ad adesso? Le cose sono andate in meglio o in peggio? Per chi vuole intraprendere questa gratificante professione?

Sicuramente le cose sono andate in peggio, perché le ultime riforme del ministero, hanno indebolito laSoprintendenza e di conseguenza il controllo sul territorio. Inoltre, per quanto riguarda l’archeologia d’emergenza, cioè l’archeologia nei cantieri edili,  sono anche cambiate le tecniche di costruire. Spesso non si procede più allo scavo di una vasta area, ma si procede attraverso l’infissione di lunghi pali

Allucinante.

Quindi diventa molto difficile controllare lo scavo del palo e capire cosa sta distruggendo.

Ovviamente, perché potrebbe danneggiare reperti archeologi durante l’esplorazione.

Si, infatti spesso non c’è più un’apertura di tutta la terra fino a una certa profondità e la possibilità di identificare la presenza di manufatti e strutture. E se si pensa che il diametro di un palo può arrivare anche a un metro, non si vede cosa viene distrutto sotto.

Veramente atroce. Ma voi fate anche uso di strumenti a risonanza magnetica tipo i metal detector e i georadar?

Si, a volte. Non noi personalmente ma dei professionisti qualificati, abilitati e autorizzati dalla Sovrintendenza.

E questo può aiutare molto a salvare negli scavi reperti storici?

Si, si. Infatti se i metal detector possono segnalare oggetti metallici nel sottosuolo, i georadar servono per trovare strutture. Ma questi ultimi non possono dare molto aiuto perché la nostra è una terra molto bagnata, molto umida,di origine alluvionale che può inficiare la lettura del sottosuolo.

Interessante, solo la con conoscenza del nostro passato può proiettarci verso il futuro. Francesca, è stato emozionante fare questa intervista, ma siamo giunti alla fine. Io ti ringrazio a nome di tutti di aver accettato il mio invito a farti intervistare. È stato un vero piacere per me e ti ringrazio nella speranza di poterti intervistare ancora in futuro.

Ho anche io questa speranza, anche per me è stato un piacere.

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