Dopo i risultati dell’autopsia sui corpi dei pescatori uccisi, le colpe di Latorre e Girone sembrano ormai dissolte come neve al sole. Eppure bastava guardare con attenzione le carte. Ora luce con una Commissione d’inchiesta.
Tra questione rifugiati e il Renzi-pensiero la notizia questi giorni ha rischiato di passare quasi sotto silenzio. A quasi quattro anni dall’inizio del caso Marò (Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due militari accusati dal 15 febbraio 2012 dal Governo indiano della morte di due pescatori) infatti è spuntata una prova che potrebbe rivelarsi l’elemento chiave per risolvere, una volta per tutte, la questione che divide India e Italia. Il tutto ruota attorno a un proiettile, o meglio otto millimetri che fanno la differenza, e che potrebbero aprire la strada al riconoscimento dell’innocenza dei due marò. Dai dati emersi dall’autopsia che il dottor Sasika compì sui corpi dei due pescatori e consegnata dall’India ai giudici del Tribunale di Amburgo si evince infatti, seconda pagina dell’allegato 4, che che il proiettile che venne estratto dal cervello di Jalestine (uno dei due morti) presenta un’ogiva di 31 millimetri e una circonferenza di 20 millimetri alla base e 24 nella parte più larga. Un’affermazione che scagiona i due Marò: a sparare quel colpo non possono essere stati loro in quanto i proiettili che avevano in dotazione i fucilieri di Marina sono dei calibro «5.56×45» Nato e la loro lunghezza è di 23 millimetri. Otto millimetri in meno, appunto, del proiettile ritrovato nella scatola cranica dell’indiano. C’è invece un unico proiettile che è compatibile con la lunghezza di 31 millimetri ed è il calibro «7,62X54 R». Proiettile utilizzato per la PK, la mitragliatrice Kalashnikov, arma prodotta in Russia ed entrata in servizio nel 1961 ma anche per la più moderna PKM fabbricata da Russia, Jugoslavia e Cina che la produce nella versione Tipo 80. Ad utilizzare questo tipo di arma sono i Paesi dell’ex Unione Sovietica, dell’ex Patto di Varsavia, dell’ex Jugoslavia e decine di altri nel mondo ma anche i contractors che si occupano di maritime security. Una mitragliatrice abbastanza comune quindi che è stata utilizzata in innumerevoli conflitti: in Vietnam, Cambogia, Afghanistan, Cecenia ma anche in Iraq e Libia. Di più: a usarla ci sono, fra gli altri, anche le truppe indiane e la Marina dello Sri Lanka, due paesi in conflitto per la gestione delle zone di pesca dei tonni, zone in cui proprio quel fatidico giorno, i due pescatori uccisi, stavano pescando. Senza dimenticare un ultimo particolare: oggi anche l’Isis se ne serve.
Insomma, gli italiani non c’entrano nulla con quegli spari assassini. Le nostre Forze Armate non utilizzano munizioni di quel calibro, tantomeno del calibro più piccolo «7,62×39», quello che viene utilizzato per gli AK47 per intenderci. E quel giorno a bordo dell’Enrica Lexie vi erano solo Minimi e Beretta AR 70/90 che, come è risaputo, utilizzano proiettili calibro 5,56 x45 Nato, molto più piccoli del 7,62×54 R rinvenuto sul cadavere dell’indiano.
Allora tutto facile: la colpa di questo caso è dell’India e della superficialità delle proprie indagini investigative? Non del tutto. Le colpe dei governi Monti e Letta (e degli allora ministri e sottosegretari agli Esteri) paiono evidenti. E su questi ed altri aspetti pare intenzionato a far luce Pierferdinando Casini, ex presidente della Camera e attualmente a capo della commissione Affari Esteri del Senato. Fu lui a guidare la delegazione parlamentare che nel gennaio dell’anno scorso andò a fare visita ai fucilieri di marina illegalmente detenuti in India. Casini si è detto ora pronto a promuovere una commissione parlamentare d’inchiesta per accendere i doverosi riflettori su una storia che i governi italiani hanno gestito malamente sin dall’inizio. “Durante la visita in India delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera e del Senato – ha detto Casini – abbiamo ribadito che altri capitoli saranno aperti dopo il rientro dei marò sul territorio italiano”. E la commissione sarà aperta, ma “prima i militari debbono essere riportati in Italia”. Sul banco degli imputati a quel punto potrebbero finire i magistrati italiani. Colpevoli di non essersi interessati della questione. “Certo – afferma infatti Casini – appare singolare che l’autorità giudiziaria italiana che interviene su tutto non abbia avocato a sé l’indagine su quanto è avvenuto. La nave Enrica Lexie è territorio italiano. I due marò erano nel nostro paese. È chiaro che sono stati commessi errori”. Tante, troppe infatti le domande senza risposte. Se lo chiede anche Maria Giovanna Maglie che dal sito Dagospia rilancia “com’è che oggi quell’autopsia è finita nelle carte di Amburgo? Certamente gli indiani hanno portato a quel Tribunale un’accusa completa, a differenza dell’Italia, che si spera lo faccia ora alla Corte dell’Aja, utilizzando, per la serie meglio tardi che mai, le carte venute fuori che scagionano La Torre e Girone, o il sospetto di complicità diventerà certezza. Certamente gli indiani in questi anni ne hanno fatti non pochi di pasticci, qualche carta può essere scappata loro, ma il primato dei pasticci, sulla pelle di due militari in missione anti pirateria, all’Italia non glielo toglie nessuno”.