Era facilmente intuibile che le vicende afgane, con il loro carico di migranti (si parla di oltre 2 milioni di rifugiati) avrebbero alimentato l’irresistibile tentazione di chiudere i confini europei. Meno prevedibile, invece, che la mina scoppiasse in tempi così rapidi e che 12 Paesi chiedessero addirittura di attingere ai fondi europei per alzare muri e recinzioni. Bene ha fatto la presidenza slovena di turno dell’Ue a respingere la richiesta al mittente.
Ma sarebbe un errore sottovalutare le paure, comprensibili, che le vicende degli ultimi mesi hanno suscitato nei cittadini di tutti i Paesi del Vecchio Continente. La verità è che l’Europa non è mai riuscita a parlare con una sola lingua sul tema dei migranti. La così detta Convenzione di Dublino, testo chiave della politica migratoria, si limita a imporre solo sulle spalle del Paese di arrivo l’obbligo dell’assistenza dei migranti sul suolo europeo. Un peso che, finora, ha riguardato solo i Paesi del Sud, Italia e Spagna in testa. Un’asimmetria che ha condizionato qualsiasi trattativa. Ora che l’ondata dei rifugiati si sta ampliando, emergono con tutta chiarezza i limiti della mancata solidarietà fra i Paesi europei nell’affrontare, in maniera concordata, questa emergenza politica e umanitaria.
Non basta costruire una barriera di filo spinato, come vuole già fare la Lituania, lungo i 687 chilometri di confine con la Bielorussia. Il fatto che oggi il problema dell’immigrazione tocchi anche i Paesi del Nord deve spingere tutta l’Europa a cambiare rotta, rimettere mano alla Convenzione di Dublino e siglare un nuovo “patto sui migranti” che rifletta i nuovi scenari geopolitici. Fughe in avanti a colpi di muri e filo spinato potranno sedare le pulsioni egoistiche ma non risolvono un dramma che è globale.