Nel ’92 Giovanni Falcone gli inviò una missiva per spiegargli che il suo trasferimento da Palermo a Roma non era un abbandono. Vincenzo Musacchio, presidente dell’Istituto Nazionale di studi sulla Corruzione e direttore scientifico della scuola di Legalità Peppe Diana, racconta in questa intervista quell’episodio.
Come è nata la lettera?
“Scrissi a Giovanni Falcone da giovane laureato una lunga lettera nella quale lodavo il suo lavoro e quello di tutto il pool antimafia di Palermo ma gli dissi che non condividevo il fatto che lui andasse a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia. Ovviamente non mi aspettavo risposta, sia per il momento storico in atto, sia per gli impegni onerosi di Falcone. I fatti mi smentirono. Il 21 febbraio 1992 arrivò la lettera di Giovanni Falcone. L’ho tenuta in uno scrigno da allora, nessuno ne conosceva l’esistenza, neanche la mia famiglia. Poi ho deciso di leggerla esattamente 23 anni dopo agli studenti del liceo Romita di Campobasso in presenza di Pino Arlacchi, amico e collaboratore stretto di Falcone e Borsellino. C’è stata una grandissima commozione in sala ed ho capito che era ingiusto tenerla solo per me. Soprattutto per il suo messaggio finale che, se fosse vivo Falcone, sarebbe ancora una volta rivolto a tutti i giovani come ero io all’epoca. Insieme al giornalista Ismaele La Vardera abbiamo deciso di pubblicarla nello storico quotidiano L’ORA di Palermo, riscuotendo la ribalta nazionale”.
Falcone aveva paura di quel contesto?
“Assolutamente no. All’epoca io avevo soltanto 23 anni ero appena laureato in Giurisprudenza con il massimo dei voti e forse con un po’ di presunzione giovanile pensavo che Falcone volesse lasciare il Palazzo di Veleni (così era denominato il Palazzo di Giustizia di Palermo) per un posto più tranquillo. Mi sbagliavo completamente. Falcone mi scrisse che il suo non era affatto un abbandono. Il ruolo di direttore generale degli affari penali a Roma era una funzione molto importante nella lotta alla mafia. Da lì si poteva agire molto più efficacemente affinando le indagini anche con strumenti legislativi ad hoc. Non è un caso che poco dopo fu ordinato il suo assassinio”.
Perché secondo lei è stato lasciato da solo?
“Le faccio rispondere da Giovanni Falcone. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. Falcone e Borsellino erano diventati troppo pericolosi stavano arrivando a toccare il primo livello, erano indipendenti e incorruttibili e questo gli è costato la vita”.
Sono cose che si possono ripetere?
“Certamente. Si possono ripetere e si sono già ripetute. Un esempio per tutti è il bomb jammer per il Pm Antonino Di Matteo, il dispositivo che neutralizza gli ordigni radiocomandati a distanza. Dopo le ultime rivelazioni dell’aspirante pentito Vito Galatolo, che ha parlato di un progetto di attentato a Di Matteo, pianificato da personaggi esterni a Cosa Nostra e dell’arrivo di un carico di esplosivo in città, sarebbe il caso di agire concretamente e velocemente. Nel mirino ci sarebbero anche il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato ed altri magistrati. La minaccia a mio avviso va presa “molto sul serio” se non vogliamo il ripetersi di errori fatali”.
Come è cambiata la mafia?
“La criminalità organizzata ha avuto metamorfosi molto rilevanti. Ha abbandonato la via delle stragi e della lotta armata si è preparata e si è insediata lentamente ma inesorabilmente nei gangli vitali della politica utilizzando un nuovo metodo molto efficace: la corruzione. Le mafie hanno cambiato pelle ed è bene prenderne coscienza. Prima c’erano gli omicidi, l’intimidazione e l’omertà, il business della droga e il pizzo, oggi l’infiltrazione è negli appalti, nei subappalti e nei grandi flussi di denaro pubblico, attuata da affiliati o imprenditori “puliti”. Le mafie non sono più un fenomeno settoriale ma si sono radicate ovunque in Italia. Le recenti inchieste antimafia in Lazio, Lombardia, Veneto ed in Emilia Romagna dimostrano il mio assunto. Mentre negli anni passati la società civile si contrapponeva a questi fenomeni, oggi sembra assuefatta ed inerme, in alcuni casi, quasi complice. In passato era il mafioso che si rivolgeva al politico, oggi è il politico che chiede favori al mafioso. E questa situazione deve preoccuparci e non poco!”.