Non so se avrei avuto il coraggio di leggere le pagine del verbale dell’amichetta della piccola Fortuna Loffredo e soprattutto non so se avrei avuto l’equilibrio necessario per scrivere un articolo, dopo quelle pagine piene di una testimonianza così dolorosa. Ma sono ammirata dalla penna di chi ha saputo raccontare un fatto di cronaca, come la pedofilia, senza scadere nella morbosità e nello scabroso. Ci vuole un equilibrio tra il diritto di cronaca e l’emozione che notizie così atroci possono provocare anche in chi la professione la svolge da tanti anni e si sorprende ed emoziona per ben poco. Ci vuole una certa razionalità per non dare una storia del genere in pasto a lettori morbosi in cerca di voyeurismo più che di verità terribili sulla crudeltà umana.
Una notizia del genere, giornalisticamente parlando, scatena tutti gli stereotipi del nostro mestiere: il palazzo degli orrori, l’orco cattivo, la scarpina, simbolo di una violenza consumata e reiterata senza pietà e l’orrenda fine di una bambina, che parecchi giornalisti, senza averne alcun diritto, chiamano “Chicca”, come se fosse l’amichetta della figlia o della nipote.
Ore di trasmissioni, interviste all’avvocato della famiglia Loffredo, interviste alla mamma e la condanna da parte di molti su un palazzo, un’intera comunità dove nemmeno la mamma del compagno della mamma della piccola Fortuna si salva. Domande senza risposta, scomodando esperti e meno esperti, gente comune che vuole dire la sua se sia peggio la rete di pedofili o di omertosi, se tutto questo sia colpa del degrado e dell’ignoranza, e su tutte le domande pesano le mancate risposte delle Istituzioni.
Silenzi pesanti prima e durante e uno spettacolo indecoroso dopo, fatto di chiacchiere, di trasmissioni televisive dove c’è tutto per tenere incollato lo spettatore alla tv, ma spesso manca l’umanità, anche se i giornalisti fanno a gara per chiamare la piccola Fortuna, Chicca. Il fatto è che Chicca, potrebbe essere chiunque, la figlia dei vicini di casa, l’amichetta di nostra figlia o di nostra nipote, la bambina che incontriamo al parco, ma forse non vogliamo pensarci e releghiamo al Parco Verde le nostre paure, come se al di fuori di quell’area la pedofilia quasi non esistesse.
Quello che manca nel mare di trasmissioni televisive sul terribile omicidio è il pensiero per quei bambini che hanno squarciato il velo di bugie ed omertà messo in piedi dagli adulti, manca il pensiero per quei bambini costretti a vivere gomito a gomito con il mostro, anzi i mostri, manca la consapevolezza che inchioda tutta l’umanità a questa vergognosa colpa. Manca il pensiero di cosa sarà di quei bambini che sono stati al centro del circo mediatico, una volta che i riflettori saranno spenti, manca il pensiero di aver creato le condizioni affinché quei bambini si portino dietro per tutta la vita, oltre le violenze in alcuni casi, anche il marchio di provenire da quel parco. Ma il Parco Verde può essere ovunque, ad ogni latitudine e in ogni ambiente, prolifica nel degrado e nell’ignoranza, ma non è circoscritto, non è qualcosa lontano da noi. Ha ragione padre Maurizio Patriciello: “Non chiamatelo palazzo degli orrori”