Nel 1837, dopo aver fatto strage in tutta l’Europa, attraverso la penisola arrivò a Napoli un furioso colera. Nonostante fossero state approntate fasce protettive lungo il confine con lo stato pontificio, si fosse provveduto a sterilizzare e disinfettare ogni cosa, il morbo s’infiltrò nel regno attraverso gli Abruzzi portanto con sè desolazione e morte. Si ripeterono le scene così icasticamente descritte da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. La gente moriva come mosche, il lezzo dei cadaveri ammorbava l’aria. Quando l’epidemia raggiunse il picco più alto la gente cominciò a perdere i lumi ed a farneticare. Nacquero strane dicerie, circolò la voce sull’esistenza di avvelenamenti e di avvelenatori e nonostante che proprio una decina d’anni prima il Manzoni oltre a descrivere della peste avesse trattato a lungo degli untori e dimostrato ampiamente la falsità delle accuse, la plebe, e non solo quella, dette inizio ad una vasta campagna di caccia per scoprire coloro che diffondevano l’epidemia. Il grido drammatico ed assurdo com’era risuonato foscamente per le strade milanesi del XVII secolo, risuonò con gli stessi toni di assurda tragedia nelle contrade napoletane. Non solo ma corse voce che gli impiegati pubblici ed i poliziotti avessero avuto l’ordine dal re di avvelenare l’acqua e la farina per soffocare imminenti rivoluzioni.
Il popolo, facile preda delle chiacchiere, prese ad agitarsi chiedendo a gran voce che si facesse giustizia. Per tacitare l’opinione pubblica ne segui una valanga di arresti, interrogati i sospetti ed alla fine otto “avvelenatori” furono giustiziati.
Quest’epidemia distrusse quel poco che si era costruito e precipitò lo stato nell’anarchia e nel caos con una recrudescenza della delinquenza, fra il comandare ed il non obbedire, mentre i decessi si susseguivano a ritmo sempre più incalzante.
La Sicilia fino a quel punto si era salvata, ma in previsione del peggio si provvide a costruire nuovi ospedali, a disinfestare vaste zone. A chiudere osterie e taverne. Queste precauzioni si rivelarono ben presto inutili perché alla fine nel a lazzaretto di Palermo giunse una nave carica di merci di cui l’isola aveva urgente bisogno e nonostante il diniego delle autorità palermitane, furono fatte passare.
Con le merci, il colera.
Quello che si era verificato a Napoli si replicò pari pari a Palermo: il governo fu messo sotto accusa e parecchi uomini illustri incolparono apertamente i dirigenti partenopei di aver voluto scientemente diffondere il morbo “per desolare l’isola” e ne erano così convinti che quando un alto magistrato fedelissimo al re fu colpito dal colera, sul letto di morte, prima di spirare esclamò:”Credevo che l’ingrato governo avesse avuto dei riguardi per me”.
Il governo era sicuramente responsabile, ma solo per non aver saputo imporre il rispetto dell’igiene. Ma quelli erano i tempi in cui la medicina moderna cominciava a muovere i suoi passi, e contro essa si opponeva la resistenza delle abitudini, la mancanza dei servizi igienici, dell’acqua nelle case, delle fogne e quando tutto questo ci fosse stato, bastava una processione propiziatoria per rinvigorire il contagio. A fatica si fece capire che l’acqua dovesse essere bollita prima di usarla per mangiare e bere. Lavarsi le mani prima di mangiare, usare le posate non erano concetti così ovvi come oggi. Da allora il colera è sempre rimasto in forma endemica nel meridione, riesplodendo clamorosamente nel 1973 e mentre nel 1837 i colpevoli furono irrazionalmente cercati negli untori, nel 1973 essi furono scientificamente individuati nelle cozze e nei frutti di mare!
Alla fine come Dio volle l’epidemia si trasferì altrove lasciando il regno profondamente prostrato. I morti furono circa 20.000 a Napoli e 60.000 a Palermo, una vera ecatombe, la gente aveva il dente avvelenato con la corte e la corona. Quest’atmosfera contribuì nuovamente a rinforzare le sette segrete ed ad aprire la strada alla Giovane Italia.
Una delle vittime più illustri dello spaventoso colera, fu il poeta Giacomo Leopardi ospite dell’amico Ranieri a Torre dei Greco. Morì il 14..6.1837 e, ironia della sorte, era venuto Napoli per curarsi.