I lazzari costituivano il sottoproletariato napoletano. Il nome è di origine incerta, alcuni lo vogliono derivato dallo spagnolo “laceria” significante grosso modo povero, lacero. Pietro Colletta, trattando dei lazzari scrive: “Il nome di lazzaro nacque nel vicereame spagnolo quanto il Governo era avarissimo, la feudalità inerme, i vassalli pusillanimi, la città piena di servitù domestica, mentre i soldati erano pochi e lontani, pochi artisti ed imprenditori, con nessuno che lavorava i campi. Numerosi erano quelli che vivevano di espedienti. Fra un numero così alto di persone abiette, molti vivevano come belve, mal coperti, senza casa, dormendo d’inverno in grotte, in estate, per benignità del cielo allo scoperto, soddisfacendo i bisogni corporali dove si trovavano senza alcuna vergogna”.
Un quadretto tremendamente reale confermata anni dopo da un’ affermazione leopardiana che aveva descritto il popolo napoletano selvaggio e semiafricano. Dall’epoca del vicereame al regno dei Borboni le cose non erano granchè cambiate, pur essendovi stato qualche miglioramento. Questa massa di lazzari, mirabilmente descritta da Viviani o Matilde Serao, un secolo dopo, in pieno “regno progressista sabaudo”, sprezzantemente citato come popolino o “bassa plebe”, “formato da una sterminata massa di disoccupati, sottoccupati, qualche operaio edile o manovale, torme di venditori ambulanti, ladruncoli d’ogni genere, una massa caotica ed in apparenza eterogenea, aveva una forza di coesione che li rendeva omogenei vivendo in una strana simbiosi con i governanti, in cui confluivano parimenti elementi di parassitismo e di ribellione”. (Hobsbawm: I ribelli). Del resto il pensiero politico del lazzari, ammesso che ne avessero uno, era molto semplice inculcato da secoli dalle parrocchie: ” E’ compito del re e dell’aristocrazia pensare al mantenimento del popolo procurando il mangiare e proteggendolo dal nemico”. Povero e misero, in apparenza non subiva direttamente nessuno sfruttamento da parte della corte: viveva in apatica ignorante indifferenza ed era tenuto buono con la Piedigrotta, la minaccia del carcere ed un chilo di farina di tanto in tanto. Da ricordare per esempio come al verificarsi di un qualche lieto evento nella famiglia reale, mentre i nobili ed i possidenti dovevano stringere la cinghia per il regalo da portare a corte, per i lazzari era uno scialo, una festa. Nelle principali piazze della città erano alzati gli alberi della cuccagna pieni di ogni ben di Dio: prosciutti, caciocavalli, salami eccetera. Al rombo del cannone questi poveri disgraziati si lanciavano alla conquista dell’albero sotto lo sguardo divertito della corte e degli aristocratici che ignoravano come fra quei “plebei” si scatenassero spesso lotte mortali perché si trattava di una delle poche occasioni di assaporare cibi che probabilmente non avrebbero mai più gustato nella loro vita. Il fortunato che riusciva a prendere un prosciutto, un salame e che nel corso della sua esistenza al massimo era riuscito a mangiare “carne cotta”, cioè frattaglie bovine, era grato al re ed pronto a tutto per lui. Lo stesso re del resto non era il personaggio mitico ed inaccessibile delle corti europee. Ferdinando era cresciuto in mezzo ai lazzari e parlava un napoletano leggermente corretto, un cockney che cercava di smettere solamente in occasioni ufficiali, senza riuscirvi peraltro. Se il sovrano faceva bene il suo dovere, il popolo era pronto a difenderlo, la cosa che interessava principalmente i lazzari era il pane ed il re, per essi, era quello che più immediatamente poteva farlo. Quando i napoletani chiamavano Ferdinando IV re Lazzaro, re Nasone, Francesco II Franceschiello, non lo facevano affatto per disprezzo, anzi, con una specie di sviscerato quanto incredibile affetto.
estratto da
“Il Regno delle Due Sicilie, Storia di un regno maltrattato – di Camillo Linguella”
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