Il 3 febbraio 1740 Carlo di Borbone firma un editto che, dopo due secoli, riammette gli ebrei nell’Italia del Sud: concepito per attirare nel regno nuovi capitali e rivitalizzare le attività commerciali, l’editto ha tratti marcatamente liberali perché per gli ebrei «comporta una notevole libertà di movimento, non pretende distintivi di alcuna sorta, né obblighi di residenza in determinati quartieri».19
Contro questa decisione si mobilita subito il clero di Napoli: sfruttando il clima socio-psicologico della città e l’ampia considerazione che hanno le credenze, parroci e frati spargono insinuazioni e accuse che hanno facile presa sulla plebe. Prima si diffonde la voce di un imminente terremoto come punizione divina per l’editto di riammissione, poi si lascia intendere che l’arrivo degli ebrei impedirà il miracolo primaverile della liquefazione del sangue di san Gennaro: dappertutto si raccomanda di non commerciare con i nuovi mercanti per non cadere in peccato. Gli stessi pregiudizi vengono alimentati in Sicilia, in Puglia e nelle altre province. Nell’intreccio tra credenze popolari e insinuazioni del clero, l’inserimento nel regno di una comunità ebraica dinamica e propulsiva fallisce. Già nell’estate del 1741 il giurista napoletano Niccolò Fraggianni constata che «l’editto ha fatto i suoi fracassi e non ha il desiderato effetto, perché gli Ebrei non vengono a esporsi agl’insulti di un popolo superstizioso, che attribuirebbe alla loro venuta ogni natural disavventura che qui potesse accadere».20 L’editto rimane in vigore per qualche anno, ma nel 1746 viene revocato: le pressioni del clero hanno saputo coinvolgere a tal punto le masse popolari da avere la meglio sullo spirito riformatore del governo napoletano.

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