Parla Antonio Romano (Inarea)
Scrivere sulla bellezza è un compito sempre difficile. C’è già una estesissima letteratura poiché il tema investe l’orizzonte di senso dell’individuo e della collettività. La mia esperienza di designer mi induce a mettere a fuoco il concetto del “gettare avanti”, contenuto nella parola “progetto”. E che altro non è che una promessa di futuro, quella che dà senso e direzione alla vita stessa”. Parla Antonio Romano, fondatore di Inarea, società leader in Italia nell’ambito dei sistemi di identità per imprese, gruppi o istituzioni, è tra i massimi esperti di brand design. Ha progettato brand tra i più conosciuti e amati anche dal grande pubblico e insegna alla Scuola del Design del Politecnico di Milano, è stato insignito del Pantone Prize per il graphic design ed è Brand Ambassador presso International Trademark Center. Ha al suo attivo mostre dedicate al suo lavoro in numerose città del mondo, tra cui New York, Buenos Aires, Bruxelles, Varsavia, Berlino, Copenaghen, Roma e Milano. Di recente ha fissato i concetti sul tema della bellezza nelle città nel Quaderno 14 della Fondazione Dioguardi. Sullo stesso tema, qui di seguito, proponiamo una sua intervista per Il Sudonline.it.
Scrivere sulla bellezza è un compito sempre difficile. Reso ancora più arduo dal fatto che anche i canoni che la definiscono siano mutati nel corso del tempo. Non è così?
Ѐ un argomento su cui esiste una estesissima letteratura poiché il tema investe l’orizzonte di senso dell’individuo e della collettività. Tuttavia è innegabile che esistano dei codici condivisi all’interno di contesti sociali omogenei anche se i criteri che la definiscono sono a loro volta assoggettati alle variabili temporali.
E che cosa può dire a riguardo di questo tema sulla base del suo punto di vista e sulla base della sua esperienza di designer?
Alla base del mio lavoro c’è un concetto cardine, contenuto nell’etimo della parola “progetto”, vale a dire il “gettare avanti”, che è sempre, in fondo, una promessa di futuro, quella che dà senso e direzione alla vita stessa.
Torniamo al tema principe: la città e il desiderio di bellezza…
Soddisfatti i bisogni primari, noi umani ci sentiamo vivi perché desideriamo, ma desiderio significa consapevolezza rispetto a ciò che manca. La bellezza è perciò la nostra parte mancante a cui aspiriamo, in grado di stupirci, sorprenderci e soprattutto completarci.
Quindi il principio di realtà non è sufficiente ad appagarci?
Siamo costretti a misurarci con la realtà, ma le preferiamo la rappresentazione. Così, il continuo desiderio di bellezza ci induce a vestire i nostri pensieri con le parole più appropriate, a far parlare per noi gli abiti che indossiamo, le case che abitiamo e i loro arredi.
Questo vale tanto più nelle relazioni tra individui, non è così?
Certo. Assegniamo cioè a ogni punto di contatto con gli altri un segno della nostra identità, implicito o esplicito che sia, in grado di rappresentarci nella relazione.
Queste istanze che si manifestano tra individui e nei rapporti tra individuo e gruppi sociali influiscono anche sul desiderio di bellezza nello spazio pubblico della città?
Ѐ l’insieme che rappresenta la nostra personale promessa di futuro poiché, proprio sul binomio rappresentazione/relazione, si è costruita la nostra civiltà e la sua espressione più visibile e concreta, che è la città. L’architettura è d’altro canto l’organizzazione dello spazio ed è questo a generare appunto relazioni.
Le città sono il punto più alto fino ad oggi osservato nella evoluzione delle civiltà umane. Ѐ d’accordo con questo assunto?
Quando guardiamo, anche con occhi distratti, il costruito di una qualsiasi realtà urbana, cogliamo facilmente il messaggio implicito che gli abitanti hanno voluto trasmettere nelle varie epoche: erano e sono le loro promesse di futuro. Non a caso, “civis” accomuna cittadino e civiltà perché la città è da sempre il luogo delle idee, lo spazio deputato al dibattito. Politica non deriva forse da polis?
Ogni città propone la sua storia nelle pagine e i capitoli di un libro aperto: sono i monumenti, le piazze, i centri storici. Si riconosce in questa metafora?
A proposito delle città, è icastico il concetto di Bob Wilson, esponente di spicco del teatro sperimentale anglosassone, il quale parla di “spazio pieno di tempo” costituito dalle nostre città, che ci permette di leggere il racconto di secoli e spesso di millenni che i nostri antenati ci hanno consegnato e che noi dovremo tramandare. Ma, accanto alla nozione “nobile” di bellezza della città, ce n’è un’altra, apparentemente meno importante.
Sarebbe a dire?
Quella con cui siamo più a diretto contatto, camminando a piedi o muovendoci con i mezzi di trasporto. È la città delle strade e dei marciapiedi, della segnaletica orizzontale e verticale, dei negozi e delle loro insegne, dei semafori, delle automobili e dei mezzi pubblici, sia in movimento sia fermi, dei parchi, delle aiuole, degli arredi urbani, dei citofoni e delle cassette delle lettere…
Un viaggio nell’estetica on the road che fu tentato per primo da Aldo Palazzeschi nella poesia La Passeggiata…
Anche questa è una narrazione, per quanto frammentaria ed eterogenea, in grado di farci cogliere in maniera pressoché immediata quel senso di promessa di futuro, insita nel desiderio di bellezza.
La strada è un libro aperto anche per comprendere il gradiente di socialità che vi si vive, non trova?
Un esempio? Rammento la ringhiera di un condominio di periferia, tempestata da una trentina di cassette delle lettere, una diversa dall’altra, disposte senza alcun ordine logico. Un episodio di scarso rilievo, certamente, ma evocativo di una mancanza assoluta di dialogo tra gli sfortunati abitanti di quello stabile: se non c’è comunicazione, non ci può essere relazione e manca quindi il riconoscimento.
Crede anche lei che la bellezza salverà il mondo, come afferma Il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij?
Fino a quando siamo in grado di fare e di ricevere promesse, siamo al centro della vita; le persone molto anziane, i malati, i diseredati smarriscono il loro desiderio di bellezza perché, in assenza di promesse, sentono di essere invece alla periferia della loro esistenza.
La città sta alla periferia come la bellezza sta al degrado. Ѐ d’accordo con questa simmetria?
Estendendo il concetto alla città, quando il senso di periferia, nella sua accezione più deleteria, si fa spazio anche nelle aree centrali, diventa tangibile la percezione del degrado. In questo senso, quando si afferma che Roma sia una città bellissima, è impossibile essere contraddetti. Si tratta tuttavia di una sineddoche perché il riferimento si limita al centro storico, al costruito immediatamente adiacente alle mura aureliane e ad altri quartieri o “brani” urbani di eccellenza.
Che cosa ha causato la svolta cementizia che ha sfregiato le nostre città?
Gli scempi edilizi, che si sono susseguiti dagli anni ’50 del ‘900 in poi, hanno generato un tale furto di bellezza, prima al paesaggio e quindi alla città, da trasformare la cementificazione in un vero e proprio contagio, che dalla periferia si è propagato verso il centro.
Vuole fare un esempio di manufatto o sistema urbano che risponde a suo avviso a un canone di bellezza almeno accettabile.
Via Sistina, ad esempio, è un asse voluto da Papa Sisto V per collegare idealmente il Pincio e Trinità dei Monti con Santa Croce in Gerusalemme, passando per la basilica di Santa Maria Maggiore. Un gioiello rinascimentale, progettato da Domenico Fontana, vincendo un’orografia che rimanda alle strade di San Francisco: un saliscendi che dà vita a prospettive bellissime, grazie anche alla qualità del costruito e alla presenza di non pochi monumenti. Si affacciavano sulla via grandi alberghi, gallerie d’arte, orafi e negozi di qualità. Fortunatamente, almeno nella parte alta, prossima a Trinità dei Monti, esiste ancora un’unitarietà coerente con la qualità del passato.
Una enclave nel tessuto urbano di Roma…
Scendendo verso Piazza Barberini, la morfologia delle attività commerciali degrada a sua volta in negozi senza porte, che vendono souvenir a un euro, minimarket aperti fino alle ore piccole, dove i minorenni possono comprare alcolici, negozi di abbigliamento che propongono griffe taroccate e ristoranti per turisti, dotati di tutto il corredo kitsch di un’ipotetica cucina italiana: tovaglie a quadretti rossi, fiaschi di vino dal collo lunghissimo e pasta fresca esposta per strada…
Il degrado di Roma è paradigmatico?
Sì, ed è tutto nell’aver abituato lo sguardo e piegato i comportamenti a un’estetica del brutto che, attraverso il moltiplicarsi delle situazioni, di fatto legittima la perdita di decoro, non solo urbano. È compito di chi amministra la città, perciò, definire una promessa di futuro per la capitale, in grado di rilanciarla in termini di bellezza contemporanea.
In caso contrario, il declino può divenire irreversibile.
Ci sono invece situazioni dove fortunatamente il contagio diventa virtuoso e produce forme di bellezza contemporanea?
Milano vent’anni fa era ancora alle prese con l’espiazione dell’incubo, provocato dagli scandali di “Mani pulite” del decennio precedente. Grazie alla lungimiranza degli amministratori di allora e al coraggio di alcuni imprenditori, la città ha radicalmente cambiato il proprio skyline e, con esso, la percezione, i comportamenti e il senso di appartenenza dei cittadini. Agli interventi di Santa Giulia, Porta Nuova e City Life se ne sono aggiunti tanti altri, in una sorta di rincorsa alla bellezza, che ha trovato nell’Expo del 2015 il suo amplificatore mondiale.
Milano ha insomma ritrovato la propria promessa di futuro?
Ed è tornata a essere la città-guida del Paese, proponendosi con una rappresentazione in linea con le più importanti metropoli.
Sembra che il tema della bellezza e quello della città vivono ora un passaggio epocale a cui stiamo assistendo tutti, ma non riusciamo ancora a leggerne gli effetti.
Come ha osservato Papa Francesco, “questa non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca”. La nozione di spazio, ad esempio, da più di vent’anni ha conosciuto la dicotomia tra reale e digitale. Ci siamo accorti d’un tratto che impegniamo più della metà del nostro tempo attivo in quello immateriale dei nostri device e abbiamo capito durante il lockdown che la distinzione si va annullando a favore di una progressiva integrazione.
Se progetto è la parola maestra del suo lavoro e vuol dire gettare avanti, vuole provare a gettare avanti lo sguardo? Cosa intravede guardando al futuro? C’è una nozione di spazio ancora da esplorare, ma capace di generare una massa di relazioni, impensabile prima. Tutto questo è già promessa di futuro. Prepariamoci perciò a un nuovo desiderio di bellezza: il bello, è il caso di dire, deve ancora venire.