Oggi intervistiamo Santi Gnoffo. Nato e residente a Palermo, classe 1957 e non solo, ricercatore storico e delle tradizioni popolari siciliane. Ma anche: scrittore, esperto di toponomastica (storia delle vie della città), diarista (raccoglitore degli scritti che nobili e eruditi scrivevano anticamente sui fatti quotidiani accaduti)monologhista, sceneggiatore e inserzionista.
Santi, tu hai qualche anno più di me. Cosa è cambiato a Palermo dall’ultimo dopoguerra a oggi?
Diciamo che dopo il “sacco di Palermo”iniziato negli annisessanta e continuato per circa trent’anni, la nostra città ha subito un regresso, sia per quanto riguarda l’ambito culturale, sia in l’ambito economico. Ad esempio, i grandi mercati storici come il Capo e la Vucciria sono scomparsi.
E anche Ballarò, purtroppo.
Ballarò ancora resiste.
Si, ma ormai anche lui “ha i peri n’ta fossa – ha i piedi nella fossa”, come si dice in siciliano.
Esattamente. Nonostante la distruzione di alcuni immobili di grande valore architettonico, quello che chiamano “il sacco di Palermo”, tranne qualche caso, nonfu un “saccheggio” per due motivi: nel dopoguerra, Palermo aveva urgentemente bisogno di almeno cinquantamila nuovi appartamenti, infatti con la nascita della Regione Siciliana, degli ospedali Policlinico e Civico, a Palermo erano arrivati circa centomila persone provenienti dai paesi limitrofi o località siciliane, bisognose di alloggi. A ciò si aggiungano circa ottantamila persone che abbandonarono il centro storico, devastato dai bombardamenti o che vivevano incondizionati di estrema miseria. La città aveva bisogno di espandersi fuori del centro storico.
Mio padre è tra di loro, poi lo segue mia madre. Ma non c’era spazio per costruire le nuove abitazioni invece di abbatterechiese, palazzi storici e molto altro?
A parte qualche episodio, furono gli aristocratici, ormai economicamente decaduti che implorarono i costruttori di acquistare i loro palazzi in cambio di case moderne. La storia è storia.
Sono state impietosamente rase al suolo parecchie chiese di interesse storico artistico.
Certamente, ma ciò fu possibile grazie alla negligenza degli Enti locali. Alcuni edifici sacri e civili si potevano salvare ma non ci fu la volontà per diversi motivi. Ancora oggi, a distanza di circa ottant’anni dalla fine dell’ultima guerra, in città abbiamo ancora undici chilometri quadrati di ruderi.Ancora oggi, ad esempio, in via Vittorio Emanuele, il Palazzo Geraci è ancora transennato.
Purtroppo. Ma come vedi il futuro della Sicilia in generale e di Palermo, particolare?
Mi dispiace, ma sono pessimista, perché nell’ultimo ventennio a Palermo e provincia c’è statoun esodo di circa centocinquantamila persone che sono immigrate al Nord o che hanno addirittura abbandonato l’Italia. Ma anche la chiusura di circa diecimila piccole aziendea conduzione familiare e l’artigianato praticamente non esiste più. Non abbiamo più futuro che riguarda il lavoro, possiamo solo aspettare il colosso straniero che viene a investire da noi per aprire un grosso supermercato che assumerà al massimo un centinaio di persone. Prima nel centro storico c’erano circa cinquemila artigiani, che con il loro lavoro sostenevano altrettante famiglie, cioè almeno ventimila persone. Questo nostro grande patrimonio di artigiani purtroppo si è perso.
Chi o che cosa, secondo te. È responsabile di questa situazione?
In primis, lo Stato Italiano, che non si è mai veramente interessato alle regioni meridionali, poi, della nostra classe politica Siciliana, da sempre agli ordini dei partiti che hanno la sede a Roma.
Cosa si dovrebbe fare, sempre secondo te, per tentare di migliorare la situazione?
Bisognerebbe applicare lo Statuto autonomo dellaRegione Siciliana.
Adesso la domanda spinosa.In prima persona tu cosa faresti per la nostra Sicilia.
Il problema primario che ha la Sicilia è la mancanza di lavoro e crearlo non è impossibile.
La Sicilia non è mai stata una regione industriale, non ha le strutture e neanche l’indotto ma in compenso ha un clima molto mite, bellezze naturali, architettoniche e tante tradizioni culinarie e popolari. Bisognerebbe incentivare questo enorme patrimonio che disponiamo creando un turismo diversificato: ecologico, culinario, sportivo, religioso, architettonico etc. Ad esempio, si potrebbero creare circuiti che riguardano gli antichi borghi ed i castelli (sono quasi cinquecento),coinvolgendo i mezzi di comunicazione, creando attività ricettivelocali (luoghi dove dormire, mangiare, negozi di souvenir, etc.) formare giovani del luogo, compreso quelli che sono emigrati al fine di spiegare ai turisti e visitatori la storia e gli itinerari locali.
Ovvio, in Sicilia il turismo è cultura, questo potrebbe frenare questo salasso di emigrazione. Le tue sono osservazioni interessanti, ma la nostra intervista è giunta al termine. Io ti ringrazio del tempo che ci hai dedicato e spero di averti ancora come nostro ospite.
Lo spero anch’io, Maria.