Politica Interna
Salvini vuole abolire «genitore 1 e 2». L’iniziativa non era inattesa: è stata tra i cavalli di battaglia di tutta la campagna elettorale di Matteo Salvini. Ieri ha aggiunto un nuovo piatto al menù delle promesse governative, anzi due: il quoziente familiare e l’aumento delle pensioni per gli invalidi civili. «L’obiettivo che mi pongo da qui fino a fine governo è introdurre il concetto di quoziente familiare, in modo da premiare la natalità e la scommessa sul futuro», ha detto parlando alla testata cattolica online “La nuova bussola quotidiana”, un messaggio di distensione al mondo cattolico dopo settimane di turbolenze sul tema dell’immigrazione. «La settimana scorsa mi è stato segnalato che sul sito del ministero dell’Interno, sui moduli per la carta d’identità elettronica, c’erano “genitore 1” e “genitore 2”. Ho fatto subito modificare il sito ripristinando la definizione “madre” e “padre”». Per Salvini, è un «piccolo segnale, però è certo che farò tutto quello che è possibile e previsto dalla Costituzione. Utero in affitto e orrori simili assolutamente no». Ma il cambio radicale con «madre» e «padre» richiederà passaggi assai più complicati. Si tratta di cambiare un decreto del 23 dicembre 2015, ma la decisione va condivisa con il ministero dell’Economia e quello per la Pubblica amministrazione. Sentendo il Garante della privacy, la conferenza Stato-Regioni e l’Agenzia per l’Italia digitale. Salvini prosegue: «Difenderemo la famiglia naturale. Eserciterò tutto il potere possibile». E annuncia anche di voler «introdurre il concetto di quoziente familiare, in modo da premiare la natalità e la scommessa sul futuro». L’esempio a cui di solito si guarda quando si parla di quoziente familiare è quello della Francia, dove le tasse non si pagano su base individuale ma, appunto, familiare. Quanto costerebbe una riforma del genere? Stime non ce ne sono. Qualche mese fa, uno studio de lavoce.info, però, è arrivato alla conclusione che – a saldi invariati – a guadagnarci sarebbero soprattutto le famiglie benestanti perché salterebbero le detrazioni familiari che già esistono e sono efficaci «nel ridurre la tassazione per le famiglie numerose» con reddito medio e medio basso.
In Abruzzo il primo strappo della Lega “Alle regionali correremo da soli”. La fine del centrodestra ha una data ufficiale: il 21 ottobre 2018. Ossia il giorno delle prossime elezioni regionali. La spina la sta staccando Matteo Salvini. Che ormai pensa “da solo”. Le elezioni regionali in Abruzzo saranno il primo banco di prova per la tenuta del centrodestra. Ad oggi non è ancora stata fissata la data della tornatina elettorale, eppure sembra profilarsi una separazione fra la Lega di Matteo Salvini e il partito di Silvio Berlusconi. Ieri infatti il coordinatore regionale del Carroccio Giuseppe Bellachioma attraverso il profilo Facebook ha chiarito che «la decisione è presa». Quale? «In Abruzzo la Lega correrà da sola. Chi ci ama ci segua e andiamo a vincere», è la chiosa del post. Un evento che era nell’aria, si evocava da qualche giorno. In un crescendo di accuse e polemiche fra Bellachioma e il coordinatore regionale di Forza Italia, il senatore Nazario Pagano. Ma appare evidente che il caso Abruzzo, innescato dalla tanto attesa decisione del presidente dem Luciano D’Alfonso di dimettersi e optare per la carica di senatore, fa parte di un gioco molto più ampio. Intanto, da Forza Italia si minimizza. La polemica resta circoscritta all’ambito regionale. Silvio Berlusconi già ieri mattina, prima dell’annuncio del divorzio in Abruzzo, ha sentito il bisogno di far sapere con una nota che «Forza Italia gode ottima salute, nessun abbandono significativo è in atto ed anzi si registrano nuovi ingressi di amministratori locali». Il Cavaliere smentisce anche la notizia che vuole fondare un altro partito e auspica che «si esaurisca in fretta l’anomalia del governo giallo-verde e che la Lega torni ad essere protagonista con noi di un centrodestra organico a livello nazionale e locale». Appello che però sembra cadere nel vuoto. Con l’annuncio di Bellachioma che assume il valore di un’indicazione nazionale che magari potrebbe trovare conferme nelle altre due regioni dove si vota in autunno: Basilicata e Trentino-Alto Adige.
Politica Estera
Il conflitto tra Ucraina e Russia, il caso Sentsov. Poeti, attori e intellettuali russi ed europei si stanno mobilitando per scongiurare la morte imminente di Oleg Sentsov, il regista ucraino catturato in Crimea dopo l’invasione di Mosca del 2015, e condannato per attività terroristiche a 20 anni di carcere da scontare nel grande nord della Siberia. Dal 14 maggio scorso Sentsov non tocca cibo per chiedere la scarcerazione di settanta suoi connazionali, anch’essi imprigionati per motivi politici in Russia. Il suo avvocato, che ha potuto visitarlo tre giorni fa, racconta che le condizioni del regista si sono spaventosamente aggravate: alcune foto scattate nella sua cella giovedì scorso, e diffuse ieri dall’Alto commissariato per i diritti umani in Russia, mostrano un uomo ormai moribondo. Dopo “l’annessione” della Crimea, Sentsov si rifiutò di prendere la cittadinanza russa, ma gli venne tolta automaticamente quella ucraina. Svanì quindi sul nascere la proposta di Kiev di scambiarlo con prigionieri russi, poiché per Mosca è anche lui un cittadino russo. Del resto, se Putin dovesse piegarsi davanti alle numerose richieste di grazia e accettasse di liberare soltanto lui, per il regista sarebbe comunque un fallimento poiché ha legato il proprio destino agli altri detenuti politici ucraini, tra i quali Oleksandr Koltchenko. Con quest’ultimo, al termine di un processo definito da Amnesty International «una farsa dell’era staliniana», Sentsov è stato condannato, senza lo straccio d’una prova, per «partecipazione a un’attività terroristica». In molti hanno già chiesto a Putin un gesto di clemenza, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron che chiede a Vladimir Putin un intervento urgente in favore del regista ucraino. Macron ha ribadito a Putin la preoccupazione per le sue condizioni sanitarie che si sono aggravate pericolosamente – ha spiegato una nota dell’Eliseo – e ha fatto alcune proposte per arrivare a una soluzione umanitaria». Il Cremlino, tanto per non dar troppo corpo agli ottimismi, ha dato ieri una lettura differente del colloquio. II comunicato ufficiale – per dire – non fa alcun cenno al caso Sentsov e il presidente russo ha cercato di spostare i riflettori sulla situazione a Damasco.
Usa- Turchia: la sfida già persa di Erdogan. Ben difficile essere «leader forti» in un mondo di economie aperte. Se ne sta accorgendo drammaticamente in queste ore Recep Tayyip Erdogan, il presidente della Turchia. Ieri ha osservato il crollo della lira turca: a un certo punto del 18% rispetto al dollaro, di quasi il 48% da inizio anno. Ha visto cadere la Borsa e salire i tassi d’interesse sui titoli decennali vicino al 29%. In apparenza imperterrito, rivolto alla popolazione che l’ha rieletto il giugno scorso, ha assicurato: «Non perderemo la guerra economica». E ha ricordato: «Abbiamo il nostro Dio. Loro hanno il dollaro, noi abbiamo Allah. Ci sono diverse campagne in corso, non prestate loro alcuna attenzione. Sono ondate di instabilità finanziaria, una crisi artificiale. Non dimenticate questo: se loro hanno i dollari, noi abbiamo la nostra gente, il nostro diritto, il nostro Allah. Questa è una lotta nazionale per fronteggiare la guerra economica contro di noi. Se hai dollari, euro o oro sotto il cuscino, vai in banca e scambiali con lire turche. Non dovete preoccuparvi. Non guardate i cambi, guardate il quadro d’insieme». I turchi però non sembrano proprio rispondere all’appello del leader, e in tutto il Paese parte piuttosto la corsa agli uffici di cambio per disfarsi della moneta locale. È una giornata di panico a Istanbul e Ankara. Consumatori e imprese vanno subito in crisi. Donald Trump ha fatto sapere di avere autorizzato il raddoppio delle tariffe sulle importazioni di acciaio e alluminio dalla Turchia. Un po’ perché la lira si è svalutata e va bilanciata, un po’ perché i rapporti tra Washington Ankara «non sono buoni». In effetti, Trump aveva già approvato sanzioni contro due esponenti del regime turco, in seguito alla detenzione di un pastore della Carolina del Nord, Andrew Brunson.
Economia e Finanza
La lira turca tracolla, Borse Ue al tappeto. In un mondo iper-globalizzato e interconnesso, lo scontro tra il presidente turco Erdogan e i mercati finanziari non poteva lasciare indenni gli altri Paesi. Sulle Borse, infatti, pesano i timori per la situazione di Ankara, che cova da tempo sotto le ceneri del potere vastissimo di Erdogan ed è emersa con le forti tensioni verso gli Usa. Erdogan esorta i cittadini a vedere le valute straniere e acquistare la moneta nazionale. Intanto Trump raddoppia i dazi sull’import di acciaio e alluminio turchi, facendo crollare ancor più la lira. Stare lontani dagli asset turchi. È stato il leitmotiv circolato ieri nelle sale trading di tutto il mondo in un tranquillo venerdì di agosto, mentre i trader si preparavano per il weekend. Lo scoppio della bomba “Turchia “questa volta non ha riguardato soltanto la lira crollata del 15% in una sola seduta e i bond schizzati nuovamente al 20%. Come un effetto domino le Borse, l’euro e le valute dei paesi emergenti hanno accusato la crisi di Ankara, soprattutto dopo le voci circolate sui timori della Banca centrale europea in merito alle ricadute sulle banche del Vecchio Continente. Quanto basta per scatenare il sell off generalizzato sui titoli bancari in Europa e negli Usa andando a cercare protezione nei Treasurys americani e nei titoli in yen, mentre il dollaro si portava a 1,14 contro l’euro. Piazza Affari come le altre Borse europee ha risentito del contagio e ha terminato in calo del 2,51% con lo spread nel giorno dell’asta BoT è risata a 267 punti, il livello più alto degli ultimi due mesi, portando il rendimento del decennale al 2,978%. In realtà, però, i numeri sembrano meno preoccupanti di quanto l’emotività della Borsa lasci intendere. La Turchia ha infatti poco debito pubblico (30% del Pil, anche se il 60% è in mani estere) e le esportazioni europee verso il Paese ammontano ad appena lo 0,5% del Pil dell’Eurozona. Il rischio di contagio maggiore riguarda il canale bancario. Ma, a ben guardare, anche in questo caso il peso vero è su poche banche. Soprattutto sulla spagnola Bbva, che vanta attività creditizie in Turchia pari a 47,8 miliardi di euro a giugno.
Alta velocità, Tap e Ilva: il sì batte il no. Tra gli italiani il fronte del sì alle grandi opere è molto più forte del fronte del no. Uno schieramento che si riscontra per tutte le infrastrutture strategiche in discussione, dalla Tav al Tap fino all’impianto siderurgico Ilva di Taranto. L’unico caso in cui il no prevale sul sì è quello del ponte sullo stretto di Messina. A «misurare» il gradimento della popolazione su un tema che è e sarà al centro dell’azione di governo nei prossimi mesi è stata Swg. In un sondaggio realizzato tra il 24 e il 26 luglio su un campione di mille soggetti maggiorenni residenti in Italia, la società di ricerche ha rilevato che l’Alta velocità Torino-Lione è ritenuta indispensabile dal 49% degli intervistati e solo per il 30% andrebbe fermata (il 21% non sa rispondere). Percentuali simili per il gasdotto pugliese (il 44% lo vuole e il 28% vi si oppone) e per l’Ilva di Taranto (41% di sì contro 31% di no). Fotografia che si ripete anche per il Mose di Venezia (49% di favorevoli contro 27% di contrari). Intanto, sull’Ilva Di Maio insiste sulle garanzie. Per incassare il via libera definitivo al piano per l’Ilva, ArcelorMittal dovrà blindare i 13.500 lavoratori del gruppo siderurgico, con tanto di paletti ambientali. Ma in attesa del parere dell’Avvocatura dello Stato, che può rivelarsi una leva cruciale per annullare la gara, il ministro dello Sviluppo economico ha già pensato a un “piano B” per Taranto. E questo il senso delle puntualizzazioni fatte ieri dallo stesso Di Maio a margine di una visita al presidio dei lavoratori Bekaert di Figline Valdamo (Firenze). Sull’ Ilva, «aspettiamo il parere dell’avvocatura, e qualsiasi piano è volto a tutelare la salute dei cittadini di Taranto e i livelli occupazionali», ha spiegato il ministro chiarendo anche il senso della mossa fatta presso l’Avvocatura dopo i rilievi dell’Anac. «Lo Stato», ha aggiunto, «deve essere molto attento quando un privato subentra a un altro privato nella gestione di un’azienda. Se questi tavoli si gestiscono al Mise è perché lo Stato deve garantire che sia un soggetto credibile».