L’Italia è il paese delle cento città. Ma due sono le città più città delle altre, autentiche capitali. Milano e Napoli sono come zenith e nadir del modo di vivere e pensare italiano. Ecco perché quello che succede sia a Milano che a Napoli, diviene determinante, decisivo e trainante anche per il resto dello stivale. E’ cos’ da sempre. Quello che succede a Milano e a Napoli è qualcosa che sempre cambia l’Italia, bene o male. E’ qualcosa con cui il resto d’Italia è costretta a fare i conti.
Milano chiama Napoli risponde. E viceversa. E’ stato così fino agli anni Novanta, i primi del Duemila. Da qualche anno questa simbiosi che unisce due capitali “morali” (morali nel senso di usi e costumi, non in senso etico) non funziona più. Se Milano chiama, Napoli non risponde. Le due città polari del sentiment italiano sono divenute simili a rette parallele che non si incontrano, ormai, nemmeno all’infinito.
Cosa è successo e perché è successo lo racconta molto bene nella sua rubrica sul Corriere del Mezzogiorno Antonio Napoli, il manager dal passato di dirigente politico, che è nato a Napoli, cresciuto a Fuorigrotta, è maturato a Roma ed è, da qualche tempo, trapiantato nella città dell’Expo. In una sua recente intervista a Sudonline confessa che non riconosce la sua città di origine, e non vi si riconosce. Perché è diventata la capitale della “divisività”. “Napoli – afferma – è una città immobile e isolata, ma è anzitutto spaccata, terreno di feroci contrapposizioni. E’ una città divisa: senza senso civico, senza orgoglio e spirito di identità. Soprattutto nelle sue classi dirigenti”
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Che cosa è successo? E’ successo che “abbiamo vissuto nell’ultimo lustro anni terribili, che potremmo definire la nostra guerra, senza timore di paragonarla a quella vera vissuta dai nostri genitori e nonni”, dice ancora Napoli. E l’avanzare della crisi ha fatto ritirare in un guscio gli uomini alla guida di grandi sistemi e agglomerati economici, che negli anni scorsi sembravano trainanti e innovativi. Alcune di queste certezze avevano nome e cognome: Si chiamavano Cis, Tarì, Polo della Qualità. Mancano all’appello per diversi motivi. Una (il Polo) ha chiuso i battenti, l’altra (il Tarì) sopravvive ma in condizioni critiche. Un’altra ancora (il sistema che al Cis unisce l’Interporto campano) sembra esserci ritirata dalla vita della comunità partenopea, non solo fisicamente dislocata in località Boscofangone. Come se il baricentro della realtà che puntava ad essere un locomotore di sviluppo si sia spostato più vicino a Nola, più lontano da Napoli. Una specie di ritiro sull’Aventino, che qui si chiama Vulcano buono…
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Napoli arriva sfinita alla sfida dei mercati internazionali. Milano, invece, è stata tirata a lucido per l’Expo. Le sue classi dirigenti si sono unite saldamente intorno alla voglia di rinascita con uno slancio che non trova eguali, specie al Sud. E’ diventata persino accattivante verso i giovani che vogliono provare a dire qualcosa. Ha costruito la sua forza di oggi su una base solidissima rappresentata d auna fitta rete di associazioni di volontariato, un tessuto sociale integro”. E Napoli? La sensazione è di una città alla quale non basta più nemmeno un miracolo. Anche se è sempre pronta ad affidarsi a qualcuno che la tiri fuori dai guai, re o imperatore o vicerè, che dir si voglia. “Milano è da tempo una città in piena rinascita – incalza a sua volta Bruno Discepolo sul Mattino del 5 novembre scorso -, con una qualità urbana e della vita tra le migliori a livello europeo… tutt’altra realtà, purtroppo quella che lega i destini di Roma e Napoli, incapaci entrambe di affermare una visione di sviluppo, crescita e modernizzazione al passo coi tempi”. Che cosa è mancato, se non la presenza vigile, attenta, proattiva, dinamica della classe borghese della città, che invece delega alla politica (a quello che reste di partiti sempre più leaderistici) la gestione di ogni aspetto della vita collettiva?
Gianni Punzo aveva, ed ha ancora, i requisiti. C’è stato un momento in cui era davvero una astro nascente dell’impresa privata italiana. Coincide grosso modo con il periodo in cui è stato vice presidente del Napoli, con un ruolo nient’affatto secondario nell’operazione che portò Maradona a fare del San Paolo il tempio del calcio. Erano gli anni Ottanta. Che cosa è rimasto? Cosa ne resterà?
In realtà Punzo non ha mai smesso di costruire la sua piccola Napoli, attorno al mito di una piazza Mercato delocalizzata. Una città in trentaduesimo, a un tiro di schioppo da Nola che in realtà molto più irpina che partenopea. Molto più osso che polpa, se così si potesse ancora dire. Più collina che mare.
Il cavaliere ha continuato a inanellare traguardi. Prima ha fatto del centro ingrosso “il maggiore sistema di distribuzione commerciale d’Europa”, una “vera città degli
affari nata per il commercio e specializzata nella distribuzione non alimentare”.
Una dopo l’altra ha sistemato le tessere del mosaico, con una meticolosa opera che ha fatto del cis, Interporto campano, Vulcano buono una sorta di gioco di monopoli. Su 1 milione di metri quadrati, 8 isole commerciali dove 300 aziende, con un totale di oltre 4000 addetti, allineano vetrine per 6 chilometri. Per farsi una idea, non basterebbe la strada che mena da Piazza Mercato a Mergellina. Qui l’ufficio postale, qui e qui e qui cinque sportelli bancari. Qui il posto di Polizia. Qui l’ambulatorio medico. E poi la caserma dei pompieri, e dei carabinieri. E poi l’epiporto, e il campo di calcio, e i ristoranti, i bar, i self service… Una specie di gioco del monopoli, appunto, dove le volumetrie e gli immobili, le piazze e i giardini non sono pezzetti di legno colorato. E lassù, sopra tutto e sopra tutti, come un deus ex machina, il presidentissimo…
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Col tempo al Cis aggiunge il sistema Interporto. E la sequela dei metri quadri si allunga con altri 3 milioni alla superficie, 180.000 mc di magazzini frigoriferi, 175 aziende presenti, 24 kilometri di strade e viadotti, e la perla incastonata più appropriata per un contesto logistico: una stazione ferroviaria interna elettrificata di 13 coppie di binari, inserita nella rete nazionale….
E non basta. Col tempo si aggiunge anche il Vulcano Buono. Concepito da Renzo Piano in anni ormai lontani è una specie di controfigura immaginifica del Vesuvio, che si stagli lì, sullo sfondo, e sembra a un tiro di schioppo. Anche in questo caso i numeri la fanno da padroni. Su un’area complessiva di 500.000 metri quadri, di tutto e di più. Commercio al dettaglio, attività ricettive e di ristorazione, attività artigianali, per il tempo libero, attività espositive e di aggregazione sociale. “All’interno del complesso architettonico – si legge sul sito aziendale . un tronco di cono che evoca fisicamente la forma di un vulcano, alto fino a 40 metri e che si sviluppa attorno ad una grande piazza, è stato realizzato un complesso di gallerie commerciali a più piani… L’area di parcheggio intorno al Vulcano offre 8.000 posti auto ai visitatori.
La composizione dell’insieme ha caratteri “fuori dall’ordinario”, che corrispondono all’animal spirit del suo artefice. Chi lo conosce può dire che come pasta umana è un esempio piucheperfetto di napoletano, cioè del tipo di popolo che ha nel dna la resilienza. Punzo non lo ferma niente, ha capacità di resistere alle difficoltà della vita senza farsi travolgere, quasi ricavando dalle asperità vissute l’energia per sentirsi rinforzati e migliorati. Una qualità di pochi, che lo porta poco dopo a concepire e avviare il progetto di aggiungere al suo sistema una Banca di sistema: la Banca popolare di Sviluppo. Si arriva così al passaggio critico che si manifesta negli ultimi tempi come un testa a testa con Carlo Pontecorvo, mister Ferrarelle, a suo tempo chiamato a guidare la compagine della Bps. Un sodalizio che finisce in carta bollata con una citazione in tribunale.
(2 – continua)